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  • Rischio rumore: quando è obbligatorio effettuare la valutazione?

    Buongiorno, caro lettore, bentornato nella nostra rubrica settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi ti voglio parlare di uno dei rischi più comuni se non il più comune di tutti, il rischio rumore. Capita molto spesso ai nostri tecnici di eseguire sopralluoghi in situazioni lavorative dove il rumore è pressoché assordante, devi sapere chela questione non è assolutamente secondaria anzi è un argomento molto delicato che necessita delle giuste attenzioni. È importante che il livello di rumore sia controllato e che vengano forniti i corretti dpi ai lavoratori per far si che siano il loro udito venga protetto e preservato. Ma queste piccole accortezze possono bastare? Il rischio rumore rappresenta un elemento di criticità spesso sottovalutato, che espone i lavoratori non solo al rischio di malattie professionali (tra cui la più comune è l’ipoacusia), ma anche ad infortuni sul lavoro. Secondo il D.lgs. 81/2008, l’obbligo del Datore di lavoro è analizzare, attraverso il DVR, tale fattore di rischio e individuare le misure più appropriate di prevenzione e protezione. Rispetto ad altri fattori di rischio presenti nelle aziende, i danni da rumore vengono spesso sottovalutati, poiché i termini di causa-effetto non sono immediatamente riscontrabili; è difficile, infatti, comprendere se la perdita dell’udito (ipoacusia) derivi da fonti di rumore presenti all’interno dell’ambiente lavorativo (tecnoacusia) o da situazioni esterne (socioacusia). Quali sono i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori? Il rischio rumore non deve essere sottovalutato in quanto gli effetti sulla salute dei lavoratori possono essere anche piuttosto gravi. Dai dati statistici INAIL appare evidente che l’ipoacusia rappresenti una delle malattie professionali più comuni e che gli effetti più importanti, in fatto di danni provocati da rumore sul luogo di lavoro, sono: L’ipoacusia da rumore, ovvero la progressiva riduzione dell’udito; La sordità, ovvero la totale perdite dell’udito. In base al grado di esposizione, è possibile distinguere due situazioni che possono creare danni all’apparato uditivo: Esposizione a forte rumore (rumore di picco) che provoca dolore e lacerazioni al timpano (ad esempio un’esplosione). Esposizione a rumore tra 80 dB e 87 dB (valore limite ai sensi del D.lgs. 81/2008) che determina una potenziale e progressiva riduzione dell’udito. Tuttavia, gli effetti sulla salute dei lavoratori non si limitano alla ipoacusia e sordità, ma possono determinare effetti extrauditivi sul sistema neuropsichico (insonnia, affaticamento, nevrosi etc.), cardiocircolatorio (ipertensione, miocardia), respiratorio, intestinale (ulcere), sull’apparato digerente (gastrite) o ancora sull’apparato endocrino (aumento dei livelli di ormoni) Inoltre, una delle problematiche che potrebbe insorgere, riguarda le comunicazioni verbali e la percezione di segnali acustici di sicurezza, che un ambiente con eccessivo rumore potrebbe faticherebbero a diffondersi aumentando la probabilità di infortuni sul lavoro. Ne consegue che la valutazione del rischio rumore debba essere condotta da tecnici specializzati in modo approfondito e puntuale considerando tutti i fattori di rischio correlati. Cosa stabilisce il D.LGS. 81/2008? La valutazione rischio rumore è l’analisi del livello di esposizione al rumore dei lavoratori, distinti per gruppi omogenei, all’interno degli ambienti di lavoro. Tale valutazione ha lo scopo di accertare che l’esposizione al rumore rientri entro i limiti di sicurezza definiti dalla Normativa e in caso contrario che i lavoratori siano dotati di idonei DPI per la protezione dell’udito (otoprotettori) e che siano sottoposti a sorveglianza sanitaria. Tale valutazione deve essere effettuata generalmente in modalità strumentale con l’ausilio di un fonometro, essa consente di valutare il livello di pressione acustica (espressa in Decibel) emessa da attrezzature e macchinari presenti nei luoghi di lavoro e più specificatamente in corrispondenza dei punti in cui sostano o transitano i lavoratori. In casi particolari, ovvero quando il livello di esposizione al rumore è modesto, la valutazione può essere effettuata senza l’ausilio di strumenti, in questo caso si parla di valutazione del rischio rumore senza misurazione (es. uffici). La valutazione del rischio rumore, negli ambienti di lavoro, è trattata nel D.lgs. 81/2008 all’interno dei rischi da agenti fisici (Titolo VIII capo II). Più specificatamente, l’art. 190 del D.lgs. 81/2008 impone al Datore di Lavoro l’obbligo di effettuare la valutazione del rumore all’interno della propria azienda, al fine di individuare i lavoratori esposti al rischio rumore ed attuare adeguati interventi di prevenzione e protezione per la salute e sicurezza. Nella valutazione rischio rumore il Datore di Lavoro deve considerare: Il livello, il tipo e la durata dell’esposizione; I valori inferiore e superiore di azione pari a 80 e 85 dB; Il valore limite di esposizione pari a 87 dB; Gli effetti sulla salute e sicurezza dei lavoratori esposti Le misure preventive da adottare (formazione, addestramento, turnazione del personale, sorveglianza sanitaria, etc) Le misure protettive più idonee (DPI per l’udito o otoprotettori). L’art. 189 del TUSL impone al Datore di Lavoro le azioni di seguito tabellate, in funzione del livello di esposizione al rumore medio ponderato giornaliero dei lavoratori. Azioni a carico del datore di Lavoro se il livello di esposizione è: >80 dB Obbligo di formazione ed informazione per i lavoratori Controllo sanitario su richiesta del lavoratore Obbligo di fornire i mezzi di protezione >85 dB Obbligo di usare/far usare i DPI Obbligo di sorveglianza sanitaria >87 dB Individuazione delle cause di esposizione Modifica dei processi per ridurre l’esposizione Modifica delle misure di protezione Quando è obbligatorio effettuare la valutazione rischio rumore? La valutazione del rischio rumore è sempre obbligatoria in quanto il legislatore impone al Datore di Lavoro l’obbligo di valutare tutti i rischi potenzialmente presenti in azienda. Ne consegue che, anche nel caso in cui il livello di esposizione al rumore risulti inferiore 80 dB, sia necessario riportare nel DVR l’indicazione circa l’assenza di tale fattore di rischio, correlato con i relativi documenti e rilevazioni a sostegno di tale affermazione. Uno strumento utile a comprendere se la propria attività sia soggetta all’obbligo di misurazioni fonometriche è l’elenco di attività e mansioni normalmente sotto gli 80 dB, riportato nell’Allegato 2 del PAF (Portale Agenti Fisici). Nel caso in cui la valutazione venga effettuata mediante indagine fonometrica, sarà necessario predisporre un documento specifico che costituisce parte integrante del DVR (sotto forma di Allegato). L’esito della valutazione del rumore deve quindi essere inserito all’interno di altri documenti riguardanti la sicurezza, tra cui e ove previsto: Piano Operativo della Sicurezza (POS); Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenti (DUVRI). Informativa sui rischi Come si effettua una corretta valutazione rischio rumore? La valutazione dei livelli di rumore in ambiente lavorativo serve a identificare la presenza di fonti acustiche che possono compromettere la salute e la sicurezza dei lavoratori esposti. Come citato nel paragrafo precedente la valutazione rischio rumore è richiesta in tutte le aziende, indipendentemente dal settore produttivo e deve essere effettuata da un tecnico qualificato. In base alla gravità di rischio si distinguono due casi: Valutazione del rischio rumore senza misurazioni attraverso l’ausilio dei dati presenti in letteratura Valutazione del rischio con misurazioni fonometriche. Nello specifico la valutazione strumentale del rumore viene eseguita mediante l’utilizzo di fonometri, strumenti in grado di quantificare i livelli di Decibel nell’arco temporale delle otto ore lavorative, restituendo valori di fondo e di picco che, confrontati con i valori limite definiti per legge, danno una chiara indicazione sulla necessità o meno di dover adottare misure preventive, protettive o entrambe. Tale valutazione strumentale dovrà quantomeno contenere le seguenti informazioni specifiche: Data e firma del tecnico che ha effettuato la valutazione Data e firma del Datore di Lavoro, del RSPP del Medico Competente e del RLS Dati relativi al fonometro utilizzato Certificato di taratura del fonometro in corso di validità Valutazione del livello di esposizione per gruppi omogenei dei lavoratori Indicazioni circa i DPI più appropriati in funzione della tipologia di rumore (suoni acuti o gravi) e del livello di esposizione. Considerazioni riguardanti l’ergonomia dei DPI da utilizzarsi in relazione alle procedure operative di lavoro nonché alla compatibilità con altri DPI in dotazione ai lavoratori. Valutazione rischio rumore va aggiornata? L’art. 181 comma 2 del D.lgs. 81/2008 stabilisce che “la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad agenti fisici è programmata ed effettuata, con cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia”. Quali sono i motivi per cui è necessario effettuare l’aggiornamento della valutazione del rischio rumore? Sostanzialmente i motivi principali sono: L’introduzione di nuovi macchinari La vetustà dei macchinari esistenti con presumibile aumento del livello di rumorosità emesso dagli stessi Modifiche dei processi lavorativi con conseguente variazione dei livelli di esposizione media ponderata giornaliera. Se vi sono cambiamenti o modifiche, che fanno sì che il rumore aumenti in modo significativo, la valutazione del rischio rumore deve essere aggiornata anche prima della naturale scadenza quadriennale. In generale, quando i processi o l’introduzione di nuove macchine modifichino sostanzialmente il livello di rumorosità dei luoghi di lavoro. Misure di prevenzione e protezione del rischio rumore Quindi dopo averti offerto una panoramica completa circa questo rischio, rispondiamo alla domanda che ci siamo posti in durante l’apertura di questo breve articolo. Per ridurre i danni provocati da rumore sui luoghi di lavoro, è possibile adottare varie misure di prevenzione e protezione, tra cui: Ridurre il rumore alla fonte con l’adozione di attrezzature con bassa emissione di rumore; Isolare la sorgente sonora utilizzando materiali assorbenti per pareti, muri e soffitti degli ambienti di lavoro; Limitare il tempo di esposizione del lavoratore; Utilizzare i DPI come cuffie, tappi monouso, tappi auricolari modellati, caschi per il rumore; Sensibilizzare i dipendenti sull’importanza di proteggere l’udito. Gentile lettore, spero di essere stato abbastanza esaustivo, ma se leggendo l’articolo ti dovessero essere sorte delle domande non esitare a contattarmi, sarò più che lieto di fare due parole insieme andando a chiarire gli eventuali dubbi. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Al prossimo articolo!

  • Datore di lavoro e RSPP: ciò che devi sapere sul loro rapporto

    Buongiorno, caro lettore, eccoci tornati alla carica con il nuovo articolo della settimana andando a trattare un rapporto molto complesso e chiacchierato. In ogni azienda che abbia un minimo di interesse nei confronti della sicurezza propria e dei propri dipendenti sa, che una delle “pedine” cardine, è quella dell’RSPP ovvero il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Oltre a ricordarti che, la nomina dell’RSPP è uno dei compiti non delegabili da parte del datore di lavoro, volevo analizzare i vari tipi di rapporto che possono intercorrere tra le due figure in questione, si sa quando vi è la responsabilità di mezzo vi sono sempre alcuni aspetti tecnici da tenere in considerazione. Vediamo ora quali. Qual è la definizione di RSPP, quali sono le sue funzioni? L’RSPP è definito all’art. 2del D.lgs. n. 81/2008 come: «La persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi», con la precisazione che l’attività di “coordinamento” va inteso come l’esercizio di direzione funzionale, rivolto alla migliore valorizzazione e composizione sinergica delle competenze professionali facenti capo a ciascun ASPP (addetto al servizio di prevenzione e protezione). Avendo, i due pilastri fondamentali della prevenzione e della protezione dai rischi, una funzione essenziale per la tutela della sicurezza e dalla salute dei lavoratori, è in questa prospettiva di approccio giuridico-culturale che va analizzata e interpretata la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. In modo molto semplice e facilmente comprensibile è impensabile che questa figura possa essere oggetto di una designazione solo formale, come dire “sulla carta”, sia in relazione all’importanza e alla delicatezza dei compiti che la legge assegna al servizio di prevenzione e protezione, e sia in relazione al rapporto intercorrente con il datore di lavoro. Che tipo di rapporto accomuna l'RSPP e il datore di lavoro? Mi sento di spendere due parole su un aspetto che potrà sembrare banale ma in realtà non è infatti, va evidenziato che il rapporto del RSPP con il datore di lavoro si svolge secondo due linee fondamentali: dipendenza e collaborazione. La dipendenza non è da intendersi in senso tecnico-giuridico, bensì come avvalimento funzionale, in ragione del potere direttivo e gerarchico facente capo al datore di lavoro. Mentre la collaborazione è motivata dal grado di complessità tecnica degli adempimenti per i quali è richiesta (valutazione dei rischi e redazione DVR), cui il datore di lavoro da solo (salvo alcuni casi particolari, peraltro subordinati alla frequenza di apposito corso di formazione) non potrebbe fare fronte. Per quanto riguarda l’RSPP esterno all’azienda, il rapporto di dipendenza originerà e sarà modulato anche in base ai termini stabiliti in fase contrattuale. Cosa ci dice la Corte Suprema in merito al loro rapporto? La giurisprudenza della suprema Corte ha ormai definitivamente chiarito che, all’interno del modello di impresa sicura codificato nel D.lgs. n. 81/2008, in aderenza agli standard fissati dalle direttive comunitarie, l’RSPP non figura tra i soggetti personalmente destinatari, sul piano contravvenzionale, degli obblighi di sicurezza e di salute, e dunque il suo agire non è direttamente rapportabile a condotte penalmente sanzionate, atteso che il legislatore ha inteso assegnare a questa figura compiti tendenzialmente propositivi e programmatici, ma non di autonomia decisionale od operativa. Il che non vuol dire che, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, il Rspp non possa essere chiamato a rispondere sia penalmente, sia in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale. Occorre, infatti, a questo riguardo distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionistiche, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo quali sono le contravvenzioni, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o malattie professionali. La giurisprudenza è pressoché univoca nel ritenere quella dell’RSPP una funzione integrativa del sistema di sicurezza aziendale, una sorta di ausilio tecnico per il datore di lavoro: cosicché il soggetto che, in qualità di RSPP, redige materialmente il piano non assume la qualifica di responsabile della sicurezza dei lavoratori dell’impresa. La giurisprudenza ha altresì chiarito che l’atto di designazione del RSPP non equivale al conferimento della delega in materia antinfortunistica, atteso che la figura (obbligatoria) del RSPP non coincide con quella (facoltativa) del dirigente delegato all’osservanza delle norme antinfortunistiche e alla sicurezza dei lavoratori. Stante che il (dirigente) delegato per la sicurezza è figura eventuale, destinataria di poteri e responsabilità originariamente e istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro, il quale deve essere formalmente individuato e investito del suo ruolo con le modalità rigorose dell’art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008, ne deriva che il datore di lavoro non può dunque ritenersi esente da responsabilità per il solo fatto di aver provveduto a designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. E se vi fosse la piena autonomia decisionale... Qualora invece venga conferita al RSPP una delega di funzioni, quest’ultimo, non limitando più la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì divenendo titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa, è perciò investito della quota di responsabilità contravvenzionale, corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate. In questo modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del RSPP diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale. Ciò urterebbe, infatti, contro il divieto di cumulo funzionale, ricavabile dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008 il quale, nel consentirlo nelle ipotesi indicate dalla norma, postula di contro, per le imprese escluse, il principio della necessaria distinzione funzionale e soggettiva tra datore di lavoro e Rspp. E proprio l’espresso divieto normativo di delegabilità dell’attività di valutazione del rischio non consentiva in passato – né consente ora in linea di principio, salve le indicazioni di cui ultra - di far ricorso al cosiddetto “principio dell’affidamento”: nel senso che (fatta salva l’ipotesi di dolo del Rspp) il datore di lavoro non può addurre di versare in una situazione di “buona fede” o ”ignoranza incolpevole”, al fine di sottrarsi alla sua personale responsabilità, rispetto a una condotta “colposa” del Rspp. Il datore di lavoro deve essere sempre a conoscenza di ciò che vi è nel DVR? Partendo dal presupposto che è il servizio di prevenzione e protezione a procedere materialmente alla: valutazione dei rischi professionali esistenti sul luogo e durante il lavoro all’elaborazione delle misure preventive e protettive dei sistemi di controllo di queste misure, delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali, redazione del relativo documento Già nel regime del D.lgs. n. 626/1994 una importante pronuncia della Corte di Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro che si avvale del servizio di prevenzione e protezione o comunque di persone competenti, sempre che assolva l’obbligo di valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il Dvr, quello di informarsi preventivamente sui rischi presenti nell’azienda ai fini della loro valutazione, e quello di verificare successivamente se il documento redatto affronti adeguatamente i temi della prevenzione e della protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tenendo conto delle informazioni acquisite sull’esistenza dei rischi nel rispetto di queste condizioni il datore non potrà dunque essere ritenuto responsabile. Aderente a questa impostazione è stata poi la quasi totalità delle successive pronunce della suprema Corte. Qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro a omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionistica, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale «che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo». Spero di averti fornito una panoramica il più completa possibile circa il rapporto che intercorre tra queste due figure, se vi fosse qualsiasi dubbio o perplessità non esitare a contattarci, i nostri tecnici saranno a completa disposizione. Ti auguro una buona giornata, alla prossima!

  • UNI EN 1090: marcatura CE per i componenti strutturali in acciaio o alluminio

    Buongiorno, gentile lettore oggi parliamo di materiali per l’edilizia nello specifico delle strutture in acciaio e alluminio. Negli ultimi decenni l’edilizia ha fatto passi da gigante, nuove tecnologie e innovazione caratterizzano qualsiasi tipo di intervento costruttivo, che sia pubblico o privato. Al giorno d’oggi per il Fabbricante di Prodotti da Costruzione saper gestire e superare le barriere tecnico-normative previste dal Commercio Internazionale diventa un importante tassello per l’evoluzione della propria azienda. Fortunatamente sviluppo molto spesso è sinonimo di maggior qualità, e l’Unione Europea ha stabilito degli standard CE al fine di garantire la libera circolazione dei prodotti da costruzione. La marcatura CE rappresenta una metodologia armonizzata per valutare, provare, calcolare, esprimere, garantire ed infine dichiarare le prestazioni di un prodotto da costruzione. Soluzione: La Norma Armonizzata EN 1090-1: Esecuzione di strutture di acciaio e di alluminio. Requisiti per la valutazione di conformità dei componenti strutturali riguarda la valutazione della conformità del controllo della produzione in fabbrica dei componenti strutturali in acciaio e alluminio utilizzati per le costruzioni di strutture in acciaio e miste acciaio - calcestruzzo ed è obbligatoria dal 1° luglio 2014 per l'immissione sul mercato di tali prodotti in Italia ed in tutta Europa. Cos'è la certificazione UNI EN 1090? La certificazione UNI EN 1090 è una certificazione obbligatoria a partire dal luglio 2014 per tutti i produttori di componenti strutturali in acciaio e alluminio. Questo tipo di certificazione è riconosciuta a livello internazionale. Viene certificata la capacità di una azienda a produrre materiale che risponde a tutte le caratteristiche qualitative richieste dalle norme UNI EN 1090 parte 1, 2 e 3, da parte di un ente terzo denominato ente di certificazione. Chi interessa la certificazione UNI EN 1090? La certificazione UNI EN 1090 interessa i produttori di strutture in acciaio o in alluminio (ad esempio le carpenterie metalliche) che dal 1° luglio 2014 hanno l’obbligo alla marcatura CE secondo la norma UNI EN 1090-1. La certificazione secondo UNI EN 1090 consente l'immissione sul mercato dei prodotti da costruzione all'interno dell'UE. Il 1° luglio 2013 è entrato in vigore il Regolamento europeo (UE) N. 305/2011 riguardante i prodotti da costruzione che introduce novità e obblighi per le aziende che operano nel mercato dei Prodotti da Costruzione e regola le condizioni per la marcatura CE. Le aziende che sono obbligate ad essere certificate secondo la UNI EN 1090 sono ad esempio i produttori dei seguenti componenti in acciaio o alluminio: prodotti in sezioni/profili di varia forma prodotti laminati (piastre, lamiere, nastri) barre, forgiati da acciaio e alluminio, protetti o non protetti contro la corrosione da rivestimenti o altri trattamenti superficiali, ad esempio anodizzazione dell'alluminio componenti in acciaio utilizzati in strutture composte acciaio-calcestruzzo Di conseguenza aziende che: lavorano nella propria sede (definita “stabilimento") l'acciaio per il cemento armato precompresso; realizzano strutture metalliche da posare in opera una volta finite; realizzano parti di strutture metalliche composte da posare in opera una volta finite; realizzano lamiere grecate; realizzano profilati formati a freddo; realizzano elementi strutturali; attuano una “pre-lavorazione” di elementi strutturali da posare in opera successivamente; producono carpenteria metallica; producono bulloni, chiodi e staffe. Cosa fare per avere il marchio CE sul proprio prodotto? Il processo da seguire per poter apporre il Marchio CE sul proprio prodotto varia a seconda della tipologia e della destinazione d’uso. In linea generale, il Fabbricante è tenuto ad implementare un Sistema di Controllo del Processo di Produzione di Fabbrica (FPC) e ad effettuare prove in conformità alla Norma Armonizzata di riferimento. La conformità di tale sistema di controllo (Factory Production Control) deve essere poi certificata da un Organismo Notificato. Al termine di questo percorso, il Fabbricante può apporre sul prodotto la Marcatura CE. La base della Marcatura CE ai sensi della Norma EN 1090-1 è quindi costituita da: Una Dichiarazione di Prestazione redatta dal Fabbricante. Un Certificato di Conformità del Controllo di Produzione in Fabbrica emesso dall’Organismo Notificato. L'Allegato ZA.2 alla Norma EN 1090-1 stabilisce i compiti del fabbricante e dell'Organismo Notificato ai fini della certificazione: Il fabbricante implementa un Sistema di Controllo della Produzione di Fabbrica (FPC), ovvero una sistematica azione di controllo interno permanente della propria produzione che comprende anche lo svolgimento di Prove Iniziali di Tipo (ITT/ITC) e ulteriori prove su campioni di prodotto secondo un programma di prove definito; L’Organismo Notificato, a seguito di un’attività di ispezione iniziale e verifica dell’FPC, certifica che quanto implementato e prodotto sia conforme agli Standard cogenti ed emette un Certificato di Conformità del Controllo della Produzione in Fabbrica. A seguito della Certificazione di conformità, il fabbricante emette e sottoscrive una dichiarazione di prestazione che, assieme al Certificato, costituisce la base per l'apposizione della marcatura CE. Il fabbricante può apporre il Marchio CE sui propri prodotti e commercializzarli. Durante il periodo di validità della certificazione, l’Organismo di Certificazione svolge verifiche di sorveglianza finalizzate al controllo del mantenimento del sistema. È obbligatoria la certificazione UNI EN 1090? La certificazione secondo la UNI EN 1090 è obbligatoria dal 1° luglio 2014 per tutti i produttori di componenti strutturali in acciaio e alluminio che intendono vendere il loro prodotto in Italia e in Europa. I vantaggi della certificazione UNI EN 1090 La certificazione UNI EN 1090 serve per: poter marcare CE i propri prodotti strutturali in acciaio e alluminio e di conseguenza poterli vendere all'interno della comunità europea e ovviamente in Italia lavorare all'estero partecipare agli appalti pubblici essere inserito dai clienti all'interno del loro albo fornitori di prima scelta La marcatura CE è combinabile con altre certificazioni? Sì, la Marcatura CE è integrabile con altre certificazioni di prodotto o legate al sistema di gestione in ambito Qualità, Ambiente, Salute e Sicurezza. In ambito EN 1090, si segnala l’importanza dell’integrazione tra la Marcatura CE, la EN ISO 3834 e la Qualifica dei Procedimenti di saldatura e degli Operatori. Spero tu abbia apprezzato il breve articolo che avevo da proporti oggi, così come sono sicuro hai apprezzato gli altri. Se leggendolo ti è sorta qualche domanda non esitare a contattarmi, io e il mio team saremmo il più esaustivi possibile in merito. Ti ringrazio e ti auguro una buona giornata. Alla prossima!

  • Certificazione PEFC: tutto quello che devi sapere

    Buongiorno, Caro lettore, oggi voglio introdurti una certificazione molto importante a livello ambientale, un marchio che molto spesso avrai notato durante l’acquisto di uno degli svariati prodotti che lo riportano. Come avrai intuito dal titolo sto parlando del marchio PEFC, un piccolo simbolo ma che ha un significato molto profondo, ovvero, la salvaguardia delle foreste mondiali; quindi, non chiudere l’articolo solo perché pensi ti possa far perdere cinque minuti. Ti garantisco che anche se direttamente non lavori la carta, il legno, i cosmetici o qualsiasi altro prodotto che sfrutti i frutti delle foreste, potrai comunque imparare qualcosa per acquistare prodotti più sostenibili che non recano danni all’ambiente in tutta la loro filiera produttiva. Entriamo ora un pochino più nel dettaglio... Quali sono i vantaggi di avere delle foreste sane? Le foreste giocano un ruolo fondamentale per l’ambiente, la popolazione e l’economia. Oltre a ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e delle catastrofi naturali, rappresentano alcune delle aree biologiche più ricche della terra. Forniscono cibo, materie prime rinnovabili per molti dei nostri prodotti e mezzi di sussistenza per milioni di persone. Cambiamenti climatici e disastri naturali Catturando e immagazzinando carbonio, le foreste, assorbono significanti quantità di anidride carbonica dall’atmosfera, un albero continuerà ad immagazzinare carbonio anche dopo che è stato raccolto e usato, mobili e case in legno possono trattenerlo per centinaia di anni. Ecco perché è così importante utilizzare prodotti a base legnosa. I prodotti a base di legno e carta, prodotti con materie prime da foreste gestite in modo sostenibile, sono una scelta saggia, rinnovabile ed ecologica rispetto ad altri materiali come la plastica, che da sola, usa il 4% della produzione petrolifera globale. Allo stesso modo, la produzione di energia da legno e biomassa sempre da foreste gestite in modo sostenibile, può sostituire altri combustibili ad alta emissione di gas serra, come petrolio e carbone. Altra immensa capacità delle foreste è quella di far fronte ai pericoli naturali, fungendo da barriere contro forti piogge, inondazioni e forti venti, aiutano a controllare o ridurre il rischio di erosione del suolo, frane e valanghe. Le foreste hanno quindi un ruolo importante nella protezione delle case e delle comunità di animali e persone, e aiutano a mantenere le condizioni necessarie per la produzione agricola. La Biodiversità delle foreste Biodiversità è un termine usato per indicare la diversità della vita sulla Terra. Le foreste sono tra gli ecosistemi più ricchi del pianeta, ospitano circa l’80% degli animali e delle piante terrestri del mondo. Grazie alla loro presenza e interazione, possono avere luogo processi ecologici come l’impollinazione, la dispersione dei semi e la fertilizzazione del suolo. La biodiversità costituisce la base di molti dei valori e dei servizi che la società ricava dalle foreste, incluso cibo, fibre, biomasse, legno e rifugi per le persone e gli animali selvatici. Acqua e terreno Le foreste svolgono un ruolo chiave nella protezione delle risorse idriche e del ciclo idrico globale, gran parte dell’acqua potabile del mondo proviene da aree boschive. Attraverso le loro radici le foreste assorbono l’acqua dell’atmosfera che cade sotto forma di pioggia. Grazie al processo di evapo-traspirazione, rilasciano nuovamente acqua nell’atmosfera. Senza questo fenomeno, vi sarebbe un conseguente aumento della siccità e della desertificazione. Le foreste aiutano anche a gestire il ciclo dei nutrienti del terreno. Il suolo contiene una moltitudine di organismi, come lombrichi, formiche, termiti, batteri e funghi. La biodiversità del suolo aiuta a regolare l’insorgenza di parassiti e malattie negli ecosistemi agricoli e naturali, e inoltre controlla o riduce l’inquinamento ambientale. Questioni sociali Legna da ardere e carbone sono le principali fonti di energia per circa due miliardi di persone in tutto il mondo. La medicina tradizionale che usa materie prime derivanti dalle foreste. Le attività forestali come la caccia e la pesca forniscono oltre il 20% del fabbisogno proteico delle famiglie nei paesi in via di sviluppo. I prodotti forestali non legnosi come frutta, verdura e funghi sono componenti importanti della dieta nelle aree rurali. Le foreste contribuiscono in modo significativo alle economie nazionali e regionali. Nei paesi in via di sviluppo, le imprese forestali forniscono circa il 13–35% di tutto l'occupazione rurale non agricola, il che equivale a 17 milioni di posti di lavoro nel settore formale e 30 milioni di posti di lavoro in quello informale. Dati acquisiti dall’unione internazionale delle organizzazioni di ricerca forestale (IUFRO). Cosa significa il marchio PEFC? È possibile trovare l'etichetta PEFC su una vasta gamma di prodotti, dai tessuti, alla carta igienica e ai blocchi per appunti, ai pavimenti in legno, agli scaffali fino alle tettoie per il giardino. E naturalmente, non bisogna dimenticare il packaging: bustine di tè, cereali, riso e molto altro ancora sono disponibili in confezioni certificate PEFC. L'etichetta PEFC ti aiuta a fare una scelta semplice: scegliere un prodotto realizzato con una risorsa naturale e rinnovabile ed allo stesso tempo sostenere le foreste. Quando vedi il marchio PEFC su un prodotto, significa che proviene da una foresta certificata PEFC (ovviamente, solo il materiale di origine forestale e arborea contenuto nel prodotto). Una foresta certificata PEFC è una foresta gestita in linea con i più severi requisiti ambientali, sociali ed economici. Una foresta che ci sarà anche per le generazioni future. Attraverso la certificazione PEFC, siamo in grado di monitorare il materiale dalle foreste fino al prodotto finale, seguendo tutta la catena di fornitura. Il meccanismo per tracciare il materiale si chiama certificazione di Catena di Custodia. Oltre a garantire che il materiale proviene da una foresta certificata, il marchio PEFC tutela anche i diritti dei lavoratori lungo tutto il processo di produzione. Aziende di trasformazione La certificazione di Catena di Custodia PEFC fornisce una garanzia, verificata in maniera indipendente, che il materiale di origine legnosa e arborea certificato contenuto in un prodotto provenga da foreste gestite in modo sostenibile. Integra la certificazione di gestione forestale sostenibile PEFC, che assicura che le foreste siano gestite in linea con i rigidi requisiti ambientali, sociali ed economici. Perché certificarsi? Dalle piccole e medie imprese ai marchi globali, sempre più aziende lungo la catena di valorizzazione del legname vogliono dimostrare che i materiali di origine forestale e arborea utilizzati provengono da fonti legali e sostenibili. Alcuni lo stanno facendo in risposta ai requisiti legislativi e normativi, altri si rendono conto dei vantaggi di fornire garanzie di sostenibilità sui prodotti per affrontare le preoccupazioni ambientali, sociali ed etiche. Indipendentemente dalla motivazione, lo strumento preferito dalle aziende per dimostrare l'approvvigionamento legale e sostenibile di prodotti forestali è la certificazione di Catena di Custodia PEFC. Conformità alla legislazione I governi di tutto il mondo hanno messo in atto una normativa volta a sostenere il commercio di legname legale e a negare l'ingresso sul mercato di prodotti in legno di origine illegale. La certificazione di Catena di Custodia PEFC è progettata per consentire di dimostrare la conformità a tali requisiti legislativi, offrendo l'accesso a questi nuovi mercati. Soddisfare le aspettative dei clienti In una società dove il consumo etico è in forte aumento è fondamentale dimostrare l'impegno a frenare la deforestazione, conservare la biodiversità e agire responsabilmente a livello sociale. Ad esempio, quasi 30 governi nazionali hanno già messo in atto politiche sostenibili di approvvigionamento di legname. Allo stesso modo, un numero crescente di aziende richiede la prova di sostenibilità dai propri fornitori, con influenti associazioni imprenditoriali come il Consumer Goods Forum (CGF) che incoraggiano le aziende a insistere sulla certificazione come PEFC. Disponibilità e scelta Con il 60% delle foreste al mondo certificate PEFC (più di 300 milioni di ettari), si ha accesso a una grande fornitura di prodotti forestali legnosi e non legnosi certificati PEFC. Oltre 20.000 aziende in tutto il mondo hanno la certificazione di Catena di Custodia PEFC, garantendo la disponibilità sul mercato di un'ampia gamma di prodotti certificati PEFC. Progettato per te Non tutte le aziende sono uguali, per questo ci sono diverse soluzioni e possibilità. Sono disponibili diverse opzioni per la certificazione di Catena di Custodia PEFC: La certificazione del gruppo PEFC è soluzione per la certificazione di Catena di Custodia PEFC per le piccole aziende. Le imprese edili possono trarre vantaggio dalla certificazione di progetto PEFC per dimostrare la loro scelta di costruire con legname certificato PEFC. Le organizzazioni con attività di lavorazione in più sedi possono ottenere la certificazione per tutti i loro siti con un unico certificato tramite la certificazione multisito PEFC. Come ottenere la certificazione di Catena di Custodia? Per ottenere la certificazione Catena di Custodia PEFC, è necessario sviluppare e implementare procedure per tracciare l'acquisto, il monitoraggio, la produzione, la vendita e la registrazione di materiali certificati. Vengono utilizzate le stesse linee guida ISO accettate a livello globale per garantire l'indipendenza, la trasparenza e l'imparzialità del processo di certificazione. Qual è l’iter di certificazione PEFC? Qual è la certificazione giusta per te? In primo luogo, è necessario determinare l'ambito della certificazione. Quali prodotti vuoi vendere con una dichiarazione o il marchio PEFC? Stai cercando di certificare un progetto una tantum? Puoi decidere l'esatta portata della tua certificazione e, se necessario, forniamo diverse soluzioni di certificazione su misura come quelle citate in precedenza, ovvero, la certificazione multisito, di gruppo o di progetto. Quali sono i requisiti della certificazione PEFC? Per ottenere la certificazione Catena di Custodia PEFC, è necessario soddisfare determinati requisiti chiave: Le procedure dei sistemi di gestione devono essere conformi allo standard PEFC International Chain of Custody (PEFC ST 2002 - ITA 1002 è la traduzione italiana). È possibile integrare queste procedure nei sistemi esistenti che l'azienda potrebbe aver già implementato, ad esempio le procedure ISO 9001 o ISO 14001. È necessario identificare, verificare e formare il personale responsabile dell'esecuzione delle attività che parteciperanno all'implementazione e alla manutenzione della catena di custodia; questo include l'ufficio acquisti, il marketing e il personale di vendita. È fondamentale garantire che tutte le parti coinvolte abbiano un'adeguata conoscenza dello scopo e dei requisiti della certificazione Catena di Custodia. Sarà necessario mettere in atto i controlli necessari per verificare che il materiale di provenienza sia certificato PEFC: la produzione di prodotti certificati richiede l'acquisto di materiale certificato. Vi è un database nel sito ufficiale di PEFC dove identificare diversi fornitori. È necessario implementare processi per garantire che siano state separate la produzione o la gestione di prodotti certificati da merci non certificate e che sia stato accuratamente contabilizzato il contenuto di materia prima certificata in un prodotto che contiene sia materiale certificato che non certificato. La prova può essere richiesta in qualsiasi fase del processo. È inoltre necessario conservare i registri per dimostrare che tutti i sistemi sono conformi ai requisiti. Sarà quindi necessario condurre audit interni su base annuale. Questi audit interni si aggiungono agli audit esterni di terze parti. Il processo di certificazione Una volta che avete superato tutto il lavoro preparatorio e impostato il vostro sistema per la catena di custodia, siete pronti a richiedere la certificazione PEFC. L'audit L’organismo di certificazione valuterà il vostro sistema di Catena di Custodia, confrontandolo con gli standard della Catena di Custodia e verificando che tutti i requisiti siano soddisfatti. Ciò includerà una visita in loco da parte dei revisori dell'organismo di certificazione per valutare la conformità dell'azienda. Prima di emettere il certificato l'organismo di certificazione devono essere risolti eventuali problemi di non conformità. Il certificato Se l'organismo di certificazione ritiene che il sistema di Catena di Custodia sia conforme ai requisiti di certificazione, rilascerà un certificato PEFC. Il certificato è valido per un periodo massimo di cinque anni. Durante tale periodo, l'organismo di certificazione effettuerà audit di sorveglianza annuali per confermare che le procedure messe in atto continuino a rispettare i requisiti della catena di custodia. Al fine di rinnovare la certificazione alla scadenza del certificato, è necessario sottoporsi a un controllo di rinnovo della certificazione. Ottieni i benefici della certificazione PEFC Per le aziende agli ultimi anelli della catena di trasformazione, come i proprietari di marchi e i rivenditori, la certificazione PEFC offre molti vantaggi: dalla promozione delle proprie scelte di approvvigionamento sostenibile alla soddisfazione dei rigidi requisiti normativi e di mercato. Soddisfare le aspettative dei clienti I prodotti certificati PEFC possono portare il marchio PEFC. Questo è importante, poiché i consumatori chiedono sempre più spesso che i prodotti che acquistano provengano da una fonte sostenibile. Infatti, le etichette sono la fonte più affidabile di informazioni per i consumatori sul fatto che un prodotto sia responsabile dal punto di vista ambientale e sociale. In questi giorni, c'è un chiaro vantaggio, ma anche una chiara urgenza, di essere in grado di dimostrare l'impegno delle aziende per la sostenibilità. Acquistando e vendendo prodotti certificati PEFC, è possibile fornire un resoconto sul contributo della selvicoltura sostenibile verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. L'approvvigionamento di materiale certificato contribuisce con tre aspetti al bilancio finale, poiché lo standard PEFC di gestione sostenibile delle foreste assicura che le foreste siano gestite in linea con rigorosi requisiti ambientali, sociali ed economici, creando valore per i suoi lavoratori e comunità. Assicura la tua fornitura PEFC è il più grande sistema al mondo per estensione di foreste certificate e gestite in modo sostenibile, l'utilizzo di materiale certificato PEFC consente di garantire la fornitura di materiale proveniente da fonti responsabili. Oltre 300 milioni di ettari di foreste certificate (60% del totale delle foreste certificate) in 45 paesi nel mondo forniscono quasi il 38% della produzione globale di legname rotondo industriale (FAO, 2018). Prova di tracciabilità La certificazione di Catena di Custodia PEFC monitora il legno proveniente da fonti sostenibili attraverso la catena di fornitura fino al prodotto finale. Dimostra che ogni fase della catena di lavorazione è strettamente controllata attraverso una verifica indipendente per garantire l'esclusione di fonti non sostenibili. Gli audit sono effettuati regolarmente e costantemente da organismi di certificazione terzi ed indipendenti. Spero di non aver deluso le tue aspettative, e che questa lettura ti possa aver lasciato qualche spunto in più per migliorare la tua attività, che tu voglia o meno adottare la certificazione PEFC. Anche solo acquistare il packaging dei tuoi prodotti con imballaggi provenienti da foreste sostenibili è un piccolo passo, ma che in grande scala sappi che fa la differenza. Se hai qualsiasi dubbio sai dove trovarmi, ti aspetto la prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Il medico competente: tutto ciò che devi sapere

    Buongiorno, caro lettore ben tornano nella nostra rubrica settimanale sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Come penso tu possa aver facilmente intuito dal titolo oggi voglio fare chiarezza circa una delle figure principali della sicurezza sul lavoro, ovvero il medico competente. Ognuno di noi nella sua carriera lavorativa, breve o lunga che sia sicuramente si sarà sottoposto ad una visita medica che attesta la propria idoneità a svolgere un determinato tipo di mansione, quindi avrai facilmente intuito ciò a cui mi sto riferendo. Bene, andiamo a chiarire ora quali sono i compiti di questa figura avvalendoci degli articoli presenti nel D.lgs. 81.08 per formulare le domande che potrebbero sorgere ai più inesperti. Chi è il medico competente? Il medico competente è una figura in possesso di specifici titoli e requisiti formativi e professionali, che collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi. È nominato dallo stesso, per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti previsti dal decreto legislativo n. 81/2008. Quali sono le modalità di svolgimento dell’attività di medico competente? L’attività del medico competente può essere svolta in due modalità: Sia come dipendente o collaboratore di una struttura esterna pubblica o privata convenzionata con l’imprenditore; Sia come libero professionista o dipendente del datore di lavoro. Quali sono le funzioni del medico competente? Le funzioni del medico competente previste dal D.lgs. 81/2008 possono essere raggruppate in tre categorie di compiti: professionali, informativi e collaborativi. Attività di natura professionale I compiti di natura professionale svolti dal medico competente riguardano: Sorveglianza sanitaria (Art. 41, Comma 2) La sorveglianza sanitaria dei dipendenti, consistente nell’obbligo di effettuare gli accertamenti sanitari preventivi e periodici ed eventuali visite mediche se richieste dal lavoratore, qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali, oppure in occasione di cambi di mansione per verificare l’idoneità del lavoratore alla mansione specifica o, infine, nei casi previsti dalla normativa vigente, alla cessazione del rapporto di lavoro nonché, a seguito dell’intervento ex D.lgs. 106/2009, in caso di visita pre-assuntiva e di visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione. Giudizio di idoneità (Art. 41, Comma 6) Il giudizio di idoneità alla mansione specifica del lavoratore. L’idoneità o capacità di lavoro, cioè l’attitudine a compiere un lavoro, viene distinta in idoneità generica e specifica, la prima è riferita a fattori fisiologici e non necessita di particolare preparazione, mentre la seconda si fonda sull’abilità, capacità ed esperienza del lavoratore. Il giudizio del MC non sempre è assoluto (idoneo o non idoneo) ma può essere formulato per gradi intermedi: idoneità alla mansione assegnata; idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; inidoneità temporanea (in questo caso devono essere precisati i limiti temporali di validità); inidoneità permanente. I giudizi formulati dal MC devono essere rilasciati per iscritto, copia a lavoratore e datore di lavoro. Cartelle sanitarie (Art. 25, Comma 1) L‘istituzione e l’aggiornamento delle cartelle sanitarie di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, da custodire, con salvaguardia del segreto professionale, salvo il tempo strettamente necessario per l’esecuzione della sorveglianza sanitaria e la trascrizione dei relativi risultati, presso il luogo di custodia concordato con il datore di lavoro al momento della nomina. Tenuta dei registri (Artt. 243, 280, Comma 1) La tenuta dei registri degli esposti ad agenti cancerogeni e biologici per conto del datore di lavoro, che li deve istituire ed aggiornare tramite il medico competente. Funzioni di natura informativa I compiti informativi svolti dal Medico Competente riguardano le seguenti attività: Collaborare all’attività di formazione e informazione dei lavoratori, per la parte di propria competenza; Fornire informazione ai lavoratori sul significato e sui risultati della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti; Informare il datore di lavoro dell’esito di accertamenti sanitari che abbiano evidenziato nei lavoratori esposti in modo analogo ad uno stesso agente cancerogeno o biologico l’esistenza di un’anomalia imputabile a tale esposizione; Consegnare al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella sanitaria e di rischio; Comunicare per iscritto, in occasione delle riunioni periodiche di prevenzione e protezione dei rischi, i risultati anonimi e collettivi degli accertamenti effettuati e fornire indicazioni sul significato dei risultati. Funzioni di natura collaborativa Infine, il medico competente, sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva e delle situazioni di rischio, ha il compito di collaborare col datore di lavoro e col Servizio di Prevenzione e Protezione alla: Valutazione dei rischi: valutazione dei rischi e predisposizione ed attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori. In tale contesto dovrà partecipare alla riunione periodica di prevenzione ed informare il datore di lavoro sulle misure protettive speciali da attuare per i lavoratori esposti ad agenti cancerogeni ed a rischi biologici. Visita ambienti di lavoro: visita degli ambienti di lavoro almeno una volta l’anno, salvo stabilire una cadenza diversa, in base alla valutazione dei rischi; in tal caso dovrà darne comunicazione al datore di lavoro affinché questi provveda ad annotarlo nel documento di valutazione dei rischi Esposizione dei lavoratori, primo soccorso e promozione della salute: partecipare alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini delle valutazioni e dei pareri di competenza. Collaborare con il datore di lavoro alla predisposizione del servizio di primo soccorso. Cooperare alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di “promozione della salute”, secondo i principi della responsabilità sociale. Chi nomina il medico competente? Il D.lgs. 81/08 prevede che la nomina del medico competente sia carico del datore di lavoro e del dirigente, previa consultazione dell’RLS(Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza). In occasione della nomina del medico competente, il datore di lavoro deve accertare che questi sia in possesso di uno dei titoli o requisiti che consentono l’iscrizione nell’elenco dei medici competenti istituiti presso il Ministero della Salute. L’obbligo di nomina del medico competente può essere delegato anche ad altro soggetto aziendale. Se l’incombenza di nominare il medico competente viene conferita dal datore a un dirigente con atti, procedure, ordini di servizio ordinari, non è necessaria la delega. La nomina del medico competente è obbligatoria? La norma prevede esplicitamente l’obbligo per il datore di lavoro o dirigente di “nominare il medico competente per: Effettuare la sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal decreto legislativo” (art. 18, comma 1 lettera a), D.lgs. 81/2008), per inadempienza a tale obbligo il datore di lavoro o dirigente è sanzionato con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.644,00 a 6.576,00 euro. Previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (art. 18, comma 1 lettera s). La violazione della diposizione di cui alla lettera s), l’ammenda prevista è da 2.192,00 a 4.384,00 euro. È possibile nominare più medici competenti? L’art. 39 prevede che il datore di lavoro nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi d’imprese nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità, possa nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento. Come si nomina il medico competente? L’atto di nomina deve essere formalizzato da una apposita scrittura firmata dall’incaricante e sottoscritta per accettazione dal professionista. L’opportunità di formalizzare la nomina con una lettera è sostenuta dalla prassi dell’Organo di Vigilanza di chiedere, in sede ispettiva, il documento comprovante l’incarico (e la relativa accettazione) del medico competente. Nella lettera dovranno essere indicati: Il nominativo e i dati anagrafici e fiscali dei contraenti (datore di lavoro o dirigente e medico competente), anche l’oggetto e la durata del contratto (decorrenza e termine) La tipologia dell’impegno richiesto in riferimento alla normativa vigente. Viene suggerito anche di specificare, già nella lettera di nomina, il luogo concordato di tenuta delle cartelle sanitarie e di rischio, come indicato dall’art. 25. Chi è abilitato a svolgere il ruolo del medico competente? Per svolgere il ruolo di medico competente occorre che il medico sia in possesso di uno dei seguenti titoli: Specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica; Docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene del lavoro o in clinica del lavoro; Autorizzazione di cui all’articolo 55 del D.lgs. 277/91; Specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale; Il medico competente ha l’onere di comunicare mediante autocertificazione, il possesso dei titoli e requisiti di cui sopra al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. Medico competente sicurezza: il D.lgs. 81/08 L’art. 39 del D.lgs. 81/08 disciplina le modalità di svolgimento dell’attività di medico competente, introducendo, rispetto alla normativa previgente, interessanti elementi di novità quali: Il codice etico Il comma 1 dell’art. 39 dispone che l’attività di medico competente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH). Il contratto Il comma 2 dell’art. 39 definisce la cornice contrattuale all’interno della quale possono essere svolte le funzioni di medico competente. La norma precisa che il medico competente può svolgere la propria opera in qualità di: a) dipendente o collaboratore di una struttura esterna pubblica o privata, convenzionata con l’imprenditore; b) libero professionista; c) dipendente del datore di lavoro. Il medico competente può essere dipendente di struttura pubblica? Il comma 3 dell’art. 39 conferma il divieto, solo ed esclusivamente per i dipendenti di struttura pubblica assegnati agli uffici che svolgono attività di vigilanza, di svolgere l’attività di medico competente. Le condizioni necessarie allo svolgimento dei compiti Il comma 4 dell’art. 39 prevede che il datore di lavoro assicuri al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti e ne garantisca l’autonomia. La collaborazione con medici specialisti Il comma 5 dell’art. 39 prevede che il medico competente possa avvalersi, per gli accertamenti diagnostici, della collaborazione di medici specialisti scelti in accordo con il datore di lavoro che ne sopporta gli oneri. Bene, spero come sempre di averti offerto una panoramica completa circa l’argomento trattato, se hai ancora qualche domanda non esitare a pormela, scrivimi senza problemi, io o uno dei miei collaboratori saremo più che lieti di risponderti. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Alla prossima!

  • Verifica impianto messa a terra condominio: ciò che devi sapere

    Buongiorno, caro lettore bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro, questa settimana affronteremo un argomento molto particolare e di nicchia, ma sono estremamente certo che tra i lettori qualcuno che si sia trovato difronte ad una situazione simile senz’altro c’è. È risaputo che all’interno della maggior parte dei condomini insediati nei centri cittadini, vi siano attività commerciali di tutti i tipi, come: Commercialisti Dentisti Chirurghi Notai Avvocati Psichiatri e Psicologi Bar Ristoranti La lista potrebbe allungarsi a dismisura ma penso tu abbia compreso ciò a cui mi sto riferendo. Come sempre la sicurezza delle attività commerciali per noi di TQSA è al primo posto e il rischio elettrico è sicuramente bene non sottovalutarlo, per questo motivo è corretto che tu sia a conoscenza delle particolarità relative alla verifica periodica del tuo impianto. Molto spesso quando ci rechiamo dai clienti siti all’interno di contesti condominiali, ci viene detto che alla verifica dell’impianto ci pensa il condominio, ma è coretto? Il condominio deve fare la verifica periodica dell’impianto di messa a terra? Uno dei punti molto dibattuto dell’interpretazione della legge è se anche i condomini sono obbligati alla verifica dell’impianto di terra. La risposta è affermativa, in quanto in essi si individuano ambienti di lavoro. Infatti, anche qualora non vi fossero rapporti di lavoro dipendente, (portierato, etc.) occorre comunque garantire l’incolumità di coloro che sono chiamati a vario titolo a prestare la propria attività lavorativa presso un luogo ove è installato un impianto elettrico (ditta per la manutenzione degli impianti, ditta delle pulizie, etc.). Per quale motivo è così dibattuto? In effetti bisogna dire che tale l’obbligo non è specificato esplicitamente dalla legge. Esso è sancito nelle note che il ministero delle attività produttive ha emesso nel rispondere ai quesiti posti da alcuni organismi di ispezione. Per esempio, nei protocolli 10723 e 10561 emanati dal ministero dello sviluppo economico si sancisce che nel condominio si configura, seppure temporaneamente, un luogo di lavoro (manutenzione, pulizia, etc.), per cui eventuali incidenti riconducibili a malfunzionamento dell’impianto elettrico sarebbero imputabili all’amministratore. La verifica periodica dell’impianto di terra sarebbe una prova liberatoria in tal senso. Laddove la norma non è chiara è la giurisprudenza a dare un indirizzo ovvero a creare un precedente che viene considerato completamento alla normativa cogente. Quando un luogo si può definire tale? Dal D.Lgs. 81/08 Testo Unico sulla Sicurezza, si intuisce che non è necessario che vi sia un rapporto di lavoro dipendente affinché si possa identificare un luogo di lavoro. Ne consegue anche che la dove c’è un luogo di lavoro c’è un lavoratore, che indipendentemente dal rapporto o contratto di lavoro in essere, deve essere tutelato. Soprattutto là dove l’impianto non compete a quest’ultimi nella conduzione e manutenzione. Vi è qualche decreto che mette chiarezza sulla questione? L’attuale panorama legislativo in materia di sicurezza degli impianti in ambito condominiale prevede l’adempimento degli obblighi imposti dal Decreto Legislativo 9 aprile 2008 conosciuto come 81/08, e dal Decreto del presidente della repubblica 22 ottobre 2001 n.462. vediamoli ora nel dettaglio... Il D.lgs. 81/08 stabilisce: All’art. 2, che si è presenza di un datore di lavoro qualora ci sia un qualsiasi tipo di incarico commissariato ad un lavoratore, senza distinzione sul tipo di contratto in essere tra le parti. All’art. 26, Il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi… comma 1 a) Verifica l’idoneità tecnico professionale delle imprese o dei lavoratori autonomi b) Fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività Inoltre, al Comma 3: Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze. All’ art. 80, Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i materiali e gli impianti elettrici messi a disposizione dei lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e mantenuti in modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica. A tal fine il datore di lavoro esegue una valutazione dei rischi. A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro adotta le misure tecniche ed organizzative necessarie ad eliminare o ridurre al minimo i rischi presenti. Il D.P.R. 462/01 impone: all’ Art. 4 l’obbligatorietà delle verifiche periodiche degli impianti di messa a terra negli ambienti di lavoro: Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare regolari manutenzioni dell'impianto, nonché a far sottoporre lo stesso a verifica periodica ogni cinque anni. Ad esclusione di quelli installati in cantieri, locali adibiti ad uso medico e negli ambienti a maggior rischio incendio per i quali la periodicità di verifica è biennale. Per l'effettuazione della verifica, il datore di lavoro si rivolge all'ASL o all'ARPA o ad eventuali organismi individuati dal Ministero delle attività produttive. Il soggetto che ha eseguito la verifica periodica rilascia il relativo verbale al datore di lavoro che deve conservarlo ed esibirlo a richiesta degli organi di vigilanza. Alcune considerazioni Nel caso in cui l’Amministratore assume la veste di datore di lavoro (se il condominio occupa dei lavoratori alle proprie dirette dipendenze per lo svolgimento di servizio di portierato, di pulizia, di manutenzione degli impianti, di giardinaggio, ecc.), lo stesso è tenuto ad ottemperare a tutti gli obblighi previsti per il datore di lavoro in termini di verifiche periodiche e di valutazione dei rischi, conservando i verbali dell’attività ispettiva e il documento valutazione rischi (DVR). Il D.Lgs. 81/08 individua anche il datore di lavoro nella persona che stabilisce un rapporto di lavoro tra lui stesso e una terza persona che può essere un’impresa ovvero un lavoratore autonomo. In una situazione così descritta si attivano gli obblighi previsti dalla legislazione vigente. Il legislatore non fa chiaro riferimento alla figura dell’Amministratore come datore di lavoro, ma un testo di legge nella sua genericità non può certo contemplare tutte le svariate casistiche e specificità sulle quali esso deve essere applicato. Da ultimo occorre ricordare infatti che nel 2004 la Corte di Cassazione ha condannato un Amministratore di condominio perché a seguito di un incidente occorso al portiere non aveva ottemperato quanto previsto dal DPR 462/01; nella sentenza, la stessa Corte riporta che la decisione sarebbe stata identica anche se la persona non fosse stata alle dipendenze del condominio. (Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 11504 dell'11 marzo 2004). Si ritiene pertanto che la legislazione vigente sia orientata a coinvolgere in materia di sicurezza anche l’Amministratore di condominio, in quanto ha la responsabilità dell'organizzazione stessa ed esercita i poteri decisionali e di spesa. Se ho un negozio o un ufficio all’interno di un condominio devo denunciare l’impianto ed effettuare le relative verifiche periodiche? Partendo dal presupposto che c’è un datore di lavoro, un lavoratore ed un luogo di lavoro (ufficio/negozio) esistono tutti i presupposti perché venga denunciato l’impianto e le verifiche periodiche a cura del datore di lavoro dell’impresa e non del condominio. Cosa comprende l’impianto di terra? L’impianto di terra comprende: Il dispersore (condominiale) Il collettore (condominiale) Il conduttore di terra che collega il dispersore al collettore (condominiale) Il conduttore di protezione che collega il conduttore all’impianto di terra del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa anche se transita nel condominio) I conduttori di protezione di tutte le prese a spina e utilizzatori del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa) I collegamenti equipotenziali del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa). In conclusione Ci troviamo di fronte situazioni impiantistiche obsolete, con evidenti rischi elettrici, spesso riscontrate dai nostri tecnici durante le attività di verifica, che evidenziano l’opportunità di intervenire in materia di sicurezza, a prescindere dalla nuova legislazione. L’invito è pertanto a vivere la verifica non come attività ispettiva subita, ma come opportunità da cogliere subito per: Mettere in sicurezza gli impianti. Sopperire alla manutenzione spesso inadeguata. Mantenere una traccia documentata delle verifiche, che non sostituisce la necessità della conservazione dei documenti dell’impianto (progetto, dichiarazioni di conformità, etc), ma evidenzia la buona volontà nel voler ben conservare gli impianti. Ricostruire un “punto zero” degli impianti “fuori controllo” (analisi situazioni critiche, sistemazione documenti, confronto tecnico con il Verificatore). Avere massima tutela in caso di infortunio. Avere tranquillità e garanzia di adempiere alle disposizioni legislative vigenti. Spero come sempre che l’argomento sia stato di tuo interesse. Se ti sono sorti dei dubbi non esitare a contattarmi, sarò più che lieto di fugare ogni dubbio. Buona giornata!

  • Abbigliamento da lavoro: le cose che devi sapere

    Buongiorno, caro lettore, di seguito le parole di un sito web d’informazione online che riporta un incidente sul lavoro avvenuto poche settimane fa: ” In base alle prime informazioni ottenute, l'incidente si è verificato nella zona industriale. L'uomo sarebbe rimasto incastrato in un macchinario, morendo. Uno dei suoi indumenti si sarebbe impigliato causando poi la tragedia. L'allarme alle forze dell'ordine e personale del 118 è arrivato attorno alle 20.30: i medici e i paramedici del 118 sono intervenuti con un'auto-medica e un'ambulanza, ma una volta arrivati non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Presenti anche i vigili del fuoco per aiutare con le operazioni di soccorso, i carabinieri per i rilievi e ricostruire la dinamica e i tecnici dell'agenzia di tutela della salute del territorio”. Sono pienamente consapevole che iniziare un articolo così sia un pochino toccante, ma è proprio lì che voglio arrivare infatti oggi mi piacerebbe proprio provocarti. Secondo te è normale perdere la propria vita semplicemente per un lembo della camicia che è fuoriuscito dai pantaloni?! L’articolo prima citato è solo uno dei tanti incidenti che ogni anno avvengono in Italia, potrà sembrare strano ma l’abbigliamento da lavoro genera parecchi incidenti sul lavoro, è proprio per questo motivo che per alcune mansioni viene considerato un vero e proprio DPI ovvero dispositivo di protezione individuale. È solo colpa dell’abbigliamento? Prima di andare ad affrontare l’argomento abbigliamento idoneo o non idoneo che è il fulcro di questo articolo e bene prima dedicare un breve pensiero sul macchinario utilizzato. Infatti, secondo la normativa EN ISO 23125 (la normativa europea relativa alla sicurezza dei torni), il macchinario stesso in fase di movimento dovrebbe essere provvisto di una sicura che impedisca all’operatore di rimanere incastrato rischiando di perdere gli arti o addirittura la vita. Quindi mi raccomando evita di manomettere i macchinari ed evita di acquistare macchinari sprovvisti di marcatura CE perché è un’operazione molto rischiosa che potrebbe costare la vita a te o ad uno dei tuoi dipendenti. Esclusa la problematica del macchinario, veniamo al succo del discorso. Analizziamo insieme diversi tipi di abbigliamento e le relative normative in modo da avere una panoramica completa circa il vestiario idoneo alle diverse tipologie di mansione che si possono ricoprire con un focus specifico sull’abbigliamento antimpigliamento. Abbigliamento antinfortunistico Antimpigliamento La norma UNI EN 510:2020 specifica le proprietà degli indumenti protettivi che riducono al minimo il rischio di impigliamento o trascinamento da parti in movimento quando l’operatore lavora in prossimità o su macchine o apparecchiature in movimento pericolose. Non si applica agli indumenti di protezione contro lesioni causate da parti particolari di macchine in movimento per cui esistano norme specifiche, per esempio gli indumenti di protezione per gli utilizzatori di seghe a catena. Protezione contro il rischio di impigliamento L’impigliamento è un pericolo legato al rischio meccanico. Utilizzando macchinari e attrezzature da lavoro l’operatore viene esposto a numerosi pericoli: Schiacciamento, una parte del corpo rimane schiacciata da due elementi meccanici in movimento; Cesoiamento, quando l’utilizzo di un macchinario o un’attrezzatura porta all’asportazione di una parte del corpo; Taglio o sezionamento, questo tipo di infortunio avviene in presenza di un elemento meccanico tagliente; Perforazione o puntura, penetrazione di un elemento acuminato in una parte del corpo; Attrito o abrasione, sfregamento tra una parte del corpo e un elemento meccanico che può generare anche escoriazioni; Proiezione di fluidi, corpi solidi o parti di macchina come schizzi o schegge che possono colpire l’operatore; Urto, colpo dovuto a parti meccaniche in movimento; Scivolamento, inciampo o caduta: infortuni frequenti nei lavori in quota; Impigliamento, trascinamento o intrappolamento. Il rischio di impigliamento è trattato dalla normativa UNI EN 510:2020 ed è un rischio da non sottovalutare: parti del corpo come mani, capelli, o oggetti come lacci, maniche, cravatte, sciarpe, bracciali, orologi, collane o altri elementi che si indossano, possono trascinare l’operatore impigliandosi alla macchina in movimento, seguendo il movimento della macchina stessa. Le conseguenze possono essere molto gravi, a seconda della tempestività di intervento. Campo di applicazione È molto importante utilizzare l’abbigliamento antimpigliamento antinfortunistico, per evitare di rimanere incastrati su macchinari come mole, cilindri rotanti, catene e cinghie di trasmissione. Questo tipo di abbigliamento deve essere utilizzato in molteplici mansioni, per esempio da: Addetti di tornitura; Addetti al finissaggio; Addetti di sabbiatura; Addetti alla tranciatura; Addetti alla fresatura; Addetti al taglio di metalli al plasma; Addetti alla trafilatura; Utilizzatori di macchine per la trasformazione della carta; Meccanici; Operatori in industrie di produzione; Manutentori di impianti industriali. Requisiti generali dell’abbigliamento antinfortunistico antimpigliamento Gli indumenti da lavoro antimpigliamento, realizzati secondo la normativa UNI EN 510:2020, devono avere specifiche caratteristiche per garantire questa tipologia di protezione. Vediamo cosa nello specifico: La presenza di tasche deve essere solamente nella parte interna del capo e devono essere chiuse tramite il velcro; Bottoni, cerniere e fibbie devono essere inossidabili dalla ruggine; I dispositivi di chiusura devono essere coperti e ad azionamento rapido (velcro) per la veloce rimozione in caso di emergenza; Tutte le cuciture devono essere ribattute all’interno; Le chiusure con cerniere devono essere coperte da patelle chiuse da velcro; Le tasche devono essere chiuse tramite velcro; Le pieghe create devono essere rivolte verso l’interno; L’orlo delle maniche e dei pantaloni devono essere regolabili ed aderenti alla figura (generalmente sono realizzati con un elastico); In vita deve essere presente un sistema di regolazione interno (generalmente elasticizzato). Tutte queste piccole accortezze fanno sì che il capo sia molto molto meno rischioso per l’operatore, evitando di incappare in incidenti come quello riportato all’inizio. Quali altre normative ci sono circa il vestiario? Per avere un quadro più completo vediamo più nel dettaglio quali sono le norme sull’abbigliamento da lavoro in base ai principali rischi da cui devono proteggere il lavoratore. PROTEZIONE IGNIFUGA · EN ISO 11611: certifica l’abbigliamento da lavoro impiegato in saldatura. Questo settore necessita di abbigliamento ignifugo, poiché esiste il pericolo di contatto con la fiamma. Esistono due classi in base al livello di protezione. Questi capi sono testati anche per la resistenza alla trazione, alla lacerazione, all’esplosione, alla radiazione, alla resistenza elettrica e alla diffusione di fiamma. · EN ISO 11612: È la più completa in merito all’abbigliamento che protegge dal calore e dalla fiamma. Gli indumenti devono superare quattro test: diffusione della fiamma, resistenza alla trazione, resistenza allo strappo, resistenza al calore. · EN ISO 14116: Riguarda l’abbigliamento e i materiali di protezione a limitata propagazione di fiamma. Esistono tre livelli di protezione a seconda della risposta del tessuto al test della fiamma, che viene applicata direttamente sul tessuto per dieci secondi. · EN 13506: Fa parte della EN ISO 11612 ed è la prova più realistica per quanto riguarda l’abbigliamento ignifugo. Si tratta del test sul manichino, ovvero la simulazione di un incendio su un manichino completamente vestito e dotato di più di cento sensori che registrano la variazione di energia termica in ogni singolo punto del corpo. Questi dati forniscono una previsione del danno, classificato in ustioni di primo, secondo o terzo grado. · EN 469: È lo standard relativo all’abbigliamento protettivo per i vigili del fuoco. Questi capi devono essere anche impermeabili, ad alta visibilità e resistere al calore, alla propagazione della fiamma e allo strappo. · EN 1486: Stabilisce i requisiti per gli indumenti protettivi riflettenti utilizzati dalle squadre antincendio. Questi capi devono superare i test di trasferimento di calore radiante, di calore convettivo e di calore da contatto. Più il tessuto agisce da barriera, maggiore sarà la protezione offerta. PROTEZIONE DA SCARICA E ARCO ELETTRICO · EN 61340: Definisce i criteri per l’abbigliamento e le calzature di protezione da scariche elettrostatiche. La carica statica accumulata sul corpo è pericolosa specie se si lavora a contatto con componenti elettronici sensibili, solventi o materiali infiammabili. In questo caso i capi di abbigliamento devono avere una resistenza minima alla conduttività, così da azzerare il rischio di scariche. · EN 1149: Valuta le proprietà elettrostatiche degli indumenti e delle calzature di protezione per evitare scariche incendiarie. L’abbigliamento antistatico, per esser definito tale, deve superare i test di resistenza superficiale (conduttività tra due punti sulla superficie di un tessuto), resistenza elettrica verticale (conduttività attraverso la profondità del tessuto) e misurazione del decadimento della carica. · IEC 61482: È la norma più specifica per descrivere i metodi di prova e i test che gli indumenti di protezione per arco elettrico devono superare per essere dichiarati conformi. È stata promossa dalla International Electrotechnical Commission, l’organizzazione internazionale per la definizione di standard in materia di elettricità, elettronica e tecnologie correlate. I metodi di prova sono quelli dell’arco aperto e dell’arco chiuso. Il primo misura quanta energia termica il tessuto può sopportare prima che il lavoratore subisca ustioni di secondo grado e la quantità di energia oltre la quale l’indumento si lacera, il secondo quanti chiloampere questo possa sopportare per 0,5 secondi rimanendo intatto. ALTA VISIBILITÀ · EN ISO 20471: Stabilisce tre classi in base al materiale ad alta visibilità presente sul capo, nello specifico la banda riflettente e il materiale fluorescente. · RIS 3279 – TOM: È la norma inglese che definisce i requisiti per l’abbigliamento ad alta visibilità per l’industria ferroviaria. I capi devono essere almeno in classe due per la EN ISO 2047, il materiale impiegato deve essere retroriflettente e possono essere solo di colore arancione. PROTEZIONE DAL FREDDO E DALLE PRECIPITAZIONI · EN 343: riguarda l’abbigliamento di protezione dalle intemperie come pioggia, neve, nebbia e umidità. Per essere a norma di legge, l’abbigliamento viene valutato in merito a due fattori: la resistenza alla penetrazione dell’acqua (classificata in 3 classi, dalla meno impermeabile alla più protettiva) e la resistenza all’evaporazione del vapore acqueo prodotto dal corpo dell’operatore, ovvero la traspirabilità. · EN 342: Specifica i requisiti e i test per gli indumenti di protezione da freddo (temperatura inferiore ai -5˚). I capi omologati secondo questo standard devono isolare termicamente ed essere impermeabile e traspiranti. · EN 14058: Anche questa norma definisce i requisiti e i metodi di prova per gli indumenti destinati ad ambienti freddi. Gli indumenti devono avere resistenza termica per impedire al freddo esterno di entrare ed evitare il raffreddamento del corpo, ma possono non essere impermeabili. PROTEZIONE DA RISCHIO CHIMICO · EN 13034: Riguarda l’abbigliamento di protezione contro prodotti chimici liquidi. I capi vengono testati con una nebulizzazione colorata per valutare l’eventuale assorbimento da parte del tessuto. · EN 14605: Prescrive i requisiti di prestazione per l’abbigliamento di protezione contro prodotti chimici liquidi o spray. Per testare la penetrazione si effettuano due test. Nel primo l’abbigliamento è sottoposto a un forte getto diretto, nel secondo a uno spruzzo continuo e pressurizzato di sostanze chimiche liquide. PROTEZIONE DA RISCHIO BIOLOGICO E RADIOATTIVO · EN 14126: Definisce lo standard per gli indumenti che proteggono da agenti infettivi, batteri e virus. I capi sono sottoposti a vari test e devono resistere alla penetrazione di sangue sintetico pressurizzato, batteri sospesi in soluzioni aerosol, batteri a contatto diretto e polvere contaminata. Per essere protettivo, l’abbigliamento da lavoro deve agire da barriera e non risultare contaminato né contaminante. · EN 1073: Riguarda l’abbigliamento che protegge da contaminazione radioattiva da particolato. Gli indumenti vengono divisi in tre classi a seconda del livello di protezione, dove la terza classe offre la massima sicurezza poiché ha un fattore di dispersione delle particelle verso l’interno minimo. NORMATIVE PER TIPO DI ABBIGLIAMENTO DA LAVORO PROTEZIONE TESTA, VISO E OCCHI · EN 812: Stabilisce i criteri per i caschetti antiurto certificati. In caso di impatto, questi caschetti proteggono ammortizzando e assorbendo l’urto. Inoltre, sono resistenti alla penetrazione di oggetti appuntiti. · EN 397: Riguarda i caschi industriali che devono proteggere da eventuali oggetti in caduta. Questi elmetti devono superare i test di impatto, penetrazione, infiammabilità e ancoraggio. L’energia dell’oggetto caduto deve essere assorbita dal casco, che deve anche essere resistente al taglio e alla fiamma. Inoltre, tutti i caschi conformi a questa norma devono avere un cinturino sottogola che li ancori correttamente alla testa del lavoratore. · EN 166: Riguarda occhiali e visiere di sicurezza. Devono soddisfare sia i requisiti ottici (proprietà rifrattive, trasmissione della luce, distorsione della lente), sia lo standard di protezione meccanica. Questi occhiali devono resistere agli urti senza fendersi o rompersi e per questo sono testati con sfere in acciaio di diverso peso e velocità che colpiscono sia la lente che il telaio. · EN 175: Specifica i requisiti per occhiali, maschere e schermi viso utilizzati in saldatura. Questi dispositivi devono essere resistenti agli urti e proteggere da schizzi di metallo fuso e proiezioni di solidi caldi. · EN 149: Definisce le specifiche tecniche per i dispositivi di protezione respiratoria, ovvero le mascherine. Queste devono filtrare le particelle, bloccando la penetrazione dall’esterno pur consentendo all’utente di respirare facilmente. · EN 140: Definisce le caratteristiche che devono avere le semi-maschere. Sono dispositivi di protezione respiratoria che devono resistere alla temperatura e alla fiamma. La respirazione deve essere confortevole e per essere davvero protettive queste maschere non devono lasciar passare all’interno più del 2% dell’atmosfera ambientale esterna. · EN 136: Riguarda invece le maschere pieno facciali. Questi dispositivi si dividono in tre classi a seconda dell’utilizzo richiesto. Devono superare il test di infiammabilità, la bardatura deve essere resistente alla trazione e l’aria inspirata all’interno della maschera deve essere filtrata. GUANTI · EN 388: Stabilisce i requisiti per i guanti protettivi contro i rischi meccanici. Devono resistere all’abrasione e al taglio e sono classificati in quattro classi a seconda della protezione che garantiscono. · EN 407: Definisce i guanti protettivi contro i rischi termici. Si suddividono secondo il livello di prestazione in quattro classi, e devono resistere alla fiamma, al calore radiante e convettivo e agli spruzzi di metallo fuso. · EN ISO 10819: Riguarda i guanti di protezione da vibrazioni meccaniche. Martelli pneumatici, martelli elettrici, macchinari per la frantumazione e la pavimentazione producono vibrazioni dannose che i guanti devono assorbire e attutire. · EN 511: Specifica i requisiti per i guanti protettivi contro il freddo fino ai – 50˚. Il guanto deve garantire un isolamento termico sia dal freddo convettivo che dal freddo di contatto e deve inoltre essere impermeabile. · EN 374: È la norma specifica per i guanti di protezione da rischio chimico e microbiologico. Devono essere resistenti alla penetrazione e alla permeazione. SCARPE E GINOCCHIERE · EN ISO 1328: Definisce i requisiti per calzature resistenti allo scivolamento. Esistono tre codici di marcatura per queste scarpe (SRA, SRB, SRC) a seconda che siano resistenti allo scivolamento su piastrelle di ceramica, pavimenti in acciaio o entrambi, dopo che tali superfici sono state trattate con una soluzione lubrificante. · EN ISO 20345: Riguarda tutte le calzature di sicurezza, che devono essere resistenti all’impatto, alla compressione e alla perforazione. · EN ISO 20347: Descrive gli standard di tutte le calzature da lavoro non esposte a rischi meccanici. Queste scarpe non presentano puntali in acciaio e sono adatte ad ambienti di lavoro in cui il rischio è considerato potenzialmente basso. · EN 14404: Stabilisce i requisiti di prestazione per le ginocchiere. Devono assorbire gli urti, resistere alla penetrazione e rimanere in posizione senza risultare costrittive per l’utente. Direi che una bella infarinatura ora tu la possa avere per quanto riguarda l’abbigliamento da lavoro, come sempre spero che ciò di cui abbiamo parlato possa esserti utile e di tuo interesse, colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Al prossimo articolo!

  • MUD 2022: le principali novità

    Buongiorno, gentile lettore, come ogni anno ti scrivo in questo periodo per ricordarti la presentazione del Modello Unico di Dichiarazione Ambientale (MUD). Devi sapere che quest’anno in via del tutto eccezionale viene posticipata dal 30 aprile al 21 maggio 2022 la data entro la quale dovrà essere presentato appunto il MUD per i rifiuti prodotti e gestiti nel 2021. Anche se già trovi un articolo dedicato al MUD dello scorso anno nel nostro blog ho deciso oggi di scriverne un altro con alcune informazioni aggiuntive perché ti anticipo già che ci sono alcune novità che è bene che tu sappia. Inoltre, sono molto contento perché dati alla mano ci sono molti nuovi lettori rispetto allo scorso anno e non vorrei che si perdessero un argomento molto importante come questo. Che cos'è il MUD? Il Modello di Dichiarazione Unica Ambientale (MUD) è lo strumento di contabilità ambientale tramite il quale devono essere denunciati, di norma entro il 30 aprile, i rifiuti prodotti dalle attività economiche, i rifiuti raccolti dal Comune e quelli smaltiti, avviati al recupero, trasportati od oggetto di attività di intermediazione nel corso dell’anno che precede la medesima dichiarazione. Quando va presentato il MUD? Per il 2022, dietro espressa richiesta del Ministero della Transizione Ecologica (MiTE), in collaborazione con l’ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale), il MUD adottato per il 2021 è stato sostituito da un Nuovo Modello, in attuazione della più recente normativa europea. Il Nuovo Modello MUD è stato approvato con il DPCM 17 dicembre 2021 e deve essere presentato con le solite modalità (via telematica o via PEC) entro il 21 maggio 2022: tale data deriva da quanto previsto dall’art. 6, comma 2-bis, legge 25 gennaio 1994 n. 70, secondo cui il termine per la presentazione del MUD è fissato in 120 giorni a decorrere dalla data di pubblicazione del decreto, slittando pertanto dal 30 aprile 2022 al 21 maggio 2022. Quali sono le novità del MUD 2022? Queste sono le principali novità del MUD 2022: Nuovo Modello allegato al DPCM 17 dicembre 2021 che sostituisce quello allegato al DPCM 23 dicembre 2020; inserimento nella Sezione Anagrafica di una nuova scheda “Riciclaggio” destinata ai soggetti che effettuano il riciclaggio finale dei rifiuti urbani e/o dei rifiuti di imballaggio; inserimento tra i soggetti tenuti alla presentazione e compilazione della Comunicazione Rifiuti Urbani anche dei soggetti che per effetto dell’art. 198, comma 2-bis, D.lgs. 152/2006 (TU Ambientale), si occupano della raccolta di rifiuti urbani conto terzi presso le utenze non domestiche che dovranno compilare alcune parti della Comunicazione, in particolare il “modulo RT-non Pub” (rifiuti raccolti al di fuori del servizio urbano di raccolta) allegato alla scheda RU; revisione della scheda “CG- costi di gestione” della Comunicazione Rifiuti, per garantire una maggiore facilità nella compilazione (in particolare, è stata data la possibilità di inserire valori con tre cifre decimali e di inserire valori negativi ad alcune voci); integrazione delle ISTRUZIONI, con particolare riguardo alle indicazioni per la compilazione delle nuove schede implementate e per chiarire meglio la definizione dei rifiuti urbani [art. 183, comma 1, lett. b ter), punto 2), D.Lgs. 152/2006]. Quali sono i soggetti interessati alla presentazione del MUD? L’art. 189, commi 3 e 4 del D.lgs. 152/2006, indica i soggetti, che restano invariati rispetto a quanto previsto per gli anni precedenti, obbligati alla presentazione del MUD: chiunque effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto rifiuti; commercianti e intermediari di rifiuti senza detenzione; imprese ed enti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento rifiuti; imprese ed enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi; imprese ed enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi di cui all’art. 184, comma 3, lett. c), d) e g), D.lgs. 152/2006 che hanno più di dieci dipendenti; Consorzi e i sistemi riconosciuti, istituiti per il recupero e riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti, a esclusione dei Consorzi e sistemi istituiti per il recupero e riciclaggio dei rifiuti di imballaggio che sono tenuti alla compilazione della Comunicazione Imballaggi. Come va presentato il MUD? Ovviamente noi come TQSA offriamo ai nostri clienti un servizio dedicato per la presentazione di tale dichiarazione, che solitamente risulta essere complessa e molto dispendiosa in termini di tempistiche. Ma per chi volesse eseguirla da sé, come per gli anni precedenti, anche per il 2022 le seguenti Comunicazioni devono essere presentate esclusivamente tramite il sito https://www.mudtelematico.it/: Comunicazione rifiuti; Comunicazione veicoli fuori uso; Comunicazione Imballaggi (sia sezione consorzi sia sezione gestori rifiuti di imballaggio); Comunicazione rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE). Per l’invio telematico i dichiaranti devono essere in possesso di un dispositivo di firma digitale valido al momento dell’invio. Il file trasmesso per via telematica può recare le dichiarazioni relative a più unità locali afferenti alla stessa CCIAA competente territorialmente, sia appartenenti a un unico soggetto dichiarante che appartenenti a più soggetti dichiaranti. Si ricorda inoltre che: la Comunicazione Rifiuti Urbani assimilati e raccolti in convenzione va presentata, esclusivamente via telematica, tramite il sito https://www.mudcomuni.it/; la Comunicazione Produttori di Apparecchiature elettriche ed elettroniche va presentata esclusivamente via telematica, tramite il sito https://www.registroaee.it/. Ci sono sanzioni? Rimangono invariate le sanzioni previste sia per ritardo della presentazione del MUD (dopo il 21 maggio 2022 ma comunque entro 60 giorni dalla scadenza) sia per l’omessa, incompleta o inesatta dichiarazione (con maggiorazioni degli importi per i soggetti obbligati alla Comunicazione Veicoli fuori uso e per la Comunicazione produttori AEE per i quali si aggiunge la sospensione dell’autorizzazione per un periodo da 2 a 6 mesi per l’omessa presentazione). Come sempre spero di che l’articolo sia stato di tuo interesse, se ci fossero dei dubbi ti consiglio di riguardare l’articolo dello scorso anno, oppure di contattarci, io e il mio team di tecnici saremo più che lieti di fornirti tutte le informazioni utili. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata! Alla prossima!

  • ISO 14067:2018: la Carbon Footprint di Prodotto

    Buongiorno, Caro cliente, oggi si torna a parlare di ambiente, uno degli argomenti che noi abbiamo molto a cuore e al quale siamo molto sensibili è il tema della sostenibilità ambientale. Sono consapevole che per te e per molti dei miei lettori applicare ciò di cui ti andrò a parlare oggi sarà moto complesso per questioni di struttura, costi e visione aziendale, ma sono sicuro che da imprenditore lungimirante quale sei un occhio tu lo abbia sempre puntato al futuro. Quindi, è bene che tu sappia anche la direzione che stanno prendendo aziende di riferimento quali Amazon, Apple, Ikea, Microsoft, Eni e come loro molte altre. In cosa si stanno impegnando? Nel 2015 vi è stato un incontro nella capitale francese, sottoscritto da 196 paesi di tutti e 5 i continenti, che ha fissato l’obbiettivo di mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2°C per fare fronte alla minaccia del riscaldamento globale. Tale accordo, ha fatto sì, che molte imprese si siano chiamate direttamente in causa per contribuire alla salvaguardia del pianeta, impegnandosi in modo concreto. Bill Gates, noto fondatore della Microsoft, in un convegno (non quello parigino prima citato) sulla decarbonizzazione dei processi ha affermato che: “Coloro che hanno il coraggio di fare questi passi ora non solo aiuteranno il mondo ad evitare un disastro climatico, ma raggiungeranno più facilmente il successo essendo i più attrezzati per finanziare, produrre e acquistare le soluzioni sostenibili che sosterranno la nostra futura economia. Sono molto incoraggiato dal numero sempre maggiore di aziende che si impegnano a ridurre le emissioni nette entro il 2050. È fondamentale iniziare a trasformare questi impegni in azioni concrete. Incoraggio le aziende a iniziare a seguire i principi: ridurre, rendicontare, compensare.” Quindi... Oggi più che mai le tematiche relative alla salvaguardia dell’ambiente hanno assunto un ruolo sempre più importante all’interno dell’economia mondiale, di conseguenza le organizzazioni possono evidenziare i propri obiettivi di sostenibilità ambientale attraverso un importante mezzo di comunicazioni: le certificazioni, che permettono all’azienda di comunicare ai propri clienti quale sia la politica aziendale adottata. In ambito ambientale, in data 20 agosto 2018 è entrata in vigore la nuova norma internazionale UNI EN ISO 14067 “Greenhousegases – Carbon footprint of products – Requirements and guidelines for quantification” che ha sostituito la specifica tecnica ISO/TS 14067 e che definisce i principi, i requisiti e le linee guida per la quantificazione e la comunicazione dell’impronta di carbonio di un prodotto (CFP – Carbon Footprint of a Product). Con il termine “impronta di carbonio” si intende un parametro che permette di stimare le emissioni gas serra causate da un prodotto espresse in tonnellate di CO2 equivalente. In sostanza vengono quantificate tutte le emissioni di gas ad effetto serra lungo tutto il ciclo di vita del prodotto, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento finale del prodotto, cioè “dalla culla alla tomba”. Tale norma fornisce le indicazioni su come calcolare l’impronta di carbonio dei prodotti e far meglio comprendere come è possibile ridurla. In particolare, la norma UNI EN ISO 14067 definisce quali sono i punti fondamentali da sviluppare per calcolare la impronta di carbonio, cioè: approccio di ciclo di vita, metodologia per la quantificazione della carbon footprint (CFP) e report sullo studio effettuato. L’applicazione di tale standard di riferimento permette di comprendere meglio le modalità con cui gestire e ridurre la propria CFP, di dimostrare le performance ambientali di prodotto e di comunicare i propri obiettivi di sostenibilità ambientale. Una volta definita la propria CFP, tale documentazione deve essere sottoposta a verifica e a validazione da parte di un organismo accreditato. Perché diventare un’azienda carbon neutral? Ecco i 5 vantaggi per chi sceglie la sostenibilità ambientale Attrae talenti in azienda: impregnarsi per un pianeta e un futuro migliori significa attrarre talenti e assicurarsi una permanenza a lungo termine di questi ultimi. Una ricerca condotta da Deloitte ha dimostrato come la generazione Z sia ben disposta a intraprendere un percorso professionale presso imprese che fanno del valore un punto di forza; l’80% dei giovani (Millenials + GenZ) dichiara di ritenere necessario un intervento anche da parte delle imprese nella lotta al cambiamento climatico. Ottenere un vantaggio competitivo: A parità di prodotto o servizio la sostenibilità diventa un vantaggio in grado di fare la differenza in fase di acquisto o scelta dei propri partner. Nel rapporto Coop 2020 il 55% degli intervistati italiani ha dichiarato che a dirigere le proprie scelte d’acquisto subito dopo il rapporto qualità-prezzo, c’è proprio la sostenibilità ambientale. Anticipare il cambiamento: Le normative di carattere ambientale stanno assumendo un ruolo sempre più centrale a livello nazionale, europeo e internazionale, e con esse anche le conseguenti agevolazioni e forme di tassazione penalizzanti. Le aziende non faranno trovare impreparate a questi cambiamenti non verranno rallentate o penalizzate da vincoli legali. Migliorare la reputazione: L’assunzione di responsabilità e l’impegno dell’azienda nel ridurre il proprio impatto creano un eco positivo tra i propri clienti, partners e dipendenti migliorando l’awareness e la fidelizzazione. Iniziative di sostenibilità ambientale, oltre che a tutelare il nostro pianeta, offrono la possibilità di creare iniziative per coinvolgere i propri clienti. Attrae finanziamenti: L’impatto ambientale sta diventando un criterio di rifermento nel valutare verso quale azienda rivolgere i propri finanziamenti e investimenti. Secondo Larry Fink, cofondatore e presidente di BlackRock, la più grande società di investimenti al mondo, le aziende con una strategia a lungo termine e ben articolata per affrontare la transazione verso lo zero emissioni nette si distingueranno proprio per la loro capacità di ispirare fiducia di poter far fronte a questa trasformazione globale. Non importa che tu abbia un’impresa piccola media o grande, l’importante è fare dei piccoli passi nella direzione della sostenibilità iniziare un percorso che in futuro possa garantire risultati tangibili. Spero come sempre che ciò che ho deciso di raccontarti oggi tu lo possa aver trovato interessante, sarebbe fantastico se fosse fonte di ispirazione per regalare un futuro migliore alle nuove generazioni andando a diminuire l’impatto della produzione industriale sull’ambiente. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata, alla prossima settimana!

  • Privacy e cookie policy: quali sono le differenze?

    Buongiorno, Caro lettore, oggi voglio parlarti di una piccola azione involontaria che tutte le persone che navigano sul web sono solite fare. Di cosa sto parlando? Ora te lo spiego... Con l’avvento degli smartphone navigare in rete non è mai stato più semplice, in qualsiasi evenienza S. Google ha sempre la risposta a tutti i nostri dubbi o curiosità. Essedo effettivamente così semplice ed intuitivo noi tutti quotidianamente visitiamo decine e decine di siti, ed ormai in modo spontaneo accettiamo la profilazione dei nostri dati. In che modo? Molto semplice... Quando accedi ad ogni tipologia di sito dal 2016 sino ad oggi, nella home ti comparirà un banner (comunemente nella parte bassa dello schermo) che ti chiederà di accettare i cookie per poterti garantire la migliore esperienza di utilizzo dello stesso, in quel momento sappi che darai il consenso alla tua profilazione. Al giorno d’oggi la privacy e l’utilizzo di dati sensibili sono tutti argomenti molto delicati ed è bene che tutte le persone che navigano in rete abbiano ben chiaro come funziona questo mondo. Così, sia che tu sia il proprietario del sito web, o che tu sia il fruitore sai cosa sta dietro all’argomento privacy e cookie policy. Cosa è la cookie policy? La cookie policy non è altro che un’informativa, per comodità viene impostata su più livelli. Un primo livello: contenente un’informativa breve all’interno di un banner che compare immediatamente quando l’utente accede ad un sito internet. Un secondo livello: contenente l’informativa estesa, raggiungibile tramite un link cliccabile direttamente sul banner(primo livello). Il banner relativo all’informativa breve conterrà l’indicazione che il sito utilizza cookie tecnici e, previo consenso dell’utente, cookie di profilazione o altri strumenti di tracciamento indicando in esso le relative finalità. L’informativa estesa dovrà contenere tutti gli elementi previsti dal Regolamento Europeo 2016/679, descrivere analiticamente le caratteristiche e le finalità dei cookie installati dal sito, chi è il titolare del trattamento, gli eventuali altri soggetti destinatari dei dati personali, i tempi e luogo di conservazione delle informazioni (o i criteri utilizzati per determinarli) e le indicazioni sulla possibilità e sulle modalità per gli utenti di esercitare i propri diritti in materia di protezione dei dati personali. Dovrà inoltre contenere i criteri di codifica dei cookie o degli altri strumenti di tracciamento utilizzati in modo da distinguere, in particolare, i cookie tecnici da quelli analytics e da quelli di profilazione. Informazioni più dettagliate le puoi trovare qui. Cosa sono e a cosa servono i cookie? I cookie sono piccoli file di testo memorizzati su un dispositivo, come un PC, uno smartphone o qualsiasi altro dispositivo in grado di memorizzare informazioni. 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Prevedere un comando per chiudere il banner senza prestare il consenso all’installazione dei cookie non necessari. Permettere all’utente di rifiutare tutti i cookie non necessari già nel banner. Cookie Solution Dal 10 gennaio 2022 è diventata obbligatoria la "Cookie Solution" che non è nient'altro che una revisione del banner iniziale relativo alla cookie policy di primo livello. Tale adempimento è richiamato dalle nuove linee guida per l'uso dei cookie approvato il 10/07/21, ecco cosa viene riporta in breve: Cookie banner: I pulsanti “Accetta” e “Rifiuta” sono obbligatori. Gli utenti devono poter fare scelte granulari sulle funzionalità, le terze parti e le categorie di cookie da installare (pur lasciando i dettagli dell’implementazione al fornitore del servizio, le linee guida suggeriscono che raggruppare le opzioni sia una soluzione adatta a soddisfare questo requisito). Gli utenti devono poter aggiornare le proprie preferenze di tracciamento in qualsiasi momento. Raccolta del consenso: Il consenso via semplice scorrimento non è più valido. I cookie wall non sono ammessi. Validità delle preferenze dell’utente relative al consenso: dopo aver chiesto il consenso la prima volta, devono passare almeno 6 mesi prima di poterlo chiedere nuovamente. Cookie statistici (analytics): I cookie statistici di prima parte possono essere installati senza il consenso dell’utente (e senza blocco preventivo). I cookie statistici di terza parte possono essere installati senza il consenso dell’utente (e senza blocco preventivo) solo a determinate condizioni. Prova del consenso: devi poter dimostrare di aver ottenuto un consenso valido secondo gli standard del GDPR. Basi giuridiche applicabili all’uso dei cookie oltre al consenso: l’interesse legittimo non costituisce una base giuridica valida. La privacy policy La privacy è un diritto fondamentale ed è diventato un argomento cruciale con l’avvento dell’era digitale, dato che le persone più o meno consapevolmente condividono su internet una grande quantità di informazioni personali. In qualità di proprietario di un sito web (o di un’applicazione mobile) che raccoglie informazioni personali, sei tenuto ad informare i tuoi utenti su come raccogli e tratti i loro dati personali. La privacy policy è un documento contenuto in un sito web che serve a spiegare perché e come il sito raccoglierà, memorizzerà e utilizzerà le informazioni personali fornite dai suoi utenti. È un documento obbligatorio? Ricordiamo che la privacy policy è un documento obbligatorio per legge, da inserire in ogni sito web in cui avviene un trattamento di dati personali. È richiesta da servizi di terze parti Potresti non saperlo, ma la maggior parte dei servizi di terze parti comunemente utilizzati sui siti Web richiedono che tu disponga di una privacy policy conforme al GDPR per adempiere ai loro termini di servizio. Se utilizzi Google AdSense o Google Analytics, ad esempio, devi disporre di una privacy policy che includa tutte le informazioni necessarie (compresa una clausola relativa all’utilizzo dei cookie). In caso contrario, rischieresti di violare i loro termini, con conseguente impossibilità di utilizzare i loro servizi. Implica maggiore trasparenza Avere un’informativa sulla privacy è essenziale anche dal punto di vista aziendale per essere trasparenti con i visitatori del tuo sito Web e costruire un rapporto di fiducia, soprattutto perché le persone prestano una sempre maggiore attenzione verso la loro privacy. Un sito web che non informa i suoi utenti in merito ai dati raccolti può sembrare inaffidabile. Grazie all’informativa sul trattamento, potrai informare i tuoi utenti circa le finalità del trattamento, le basi giuridiche del trattamento, le modalità e gli strumenti impiegati nelle operazioni di trattamento, i tempi di conservazione dei dati o i criteri utilizzati per determinarli, le informazioni necessarie ad identificare il titolare, l’eventuale cessione o comunicazione dei dati a terze parti, il trasferimento di dati all’estero, se intendi procedere alla profilazione degli utenti e quali saranno gli impatti sugli interessati, con quali modalità l’utente potrà esercitare i propri diritti. Quindi riassumendo... Qual è la differenza tra cookie policy e privacy policy? La cookie policy attiene specificamente all’uso dei cookie sul sito, mentre la privacy policy è un documento generale relativo a tutti i dati personali raccolti attraverso un sito Web, inclusi moduli di contatto, mailing list, ecc. Quindi per concludere, la cookie policy è uno degli argomenti trattati dalla Privacy policy. Spero di averti incuriosito ancora con qualcosa di nuovo che probabilmente conoscevi in parte o non sapevi, per qualsiasi informazione non esitare a contattarci il nostro tecnico privacy sarà più che lieto di risponderti per fugarti qualsiasi dubbio. Buona giornata!

  • Radiazioni ottiche artificiali: effetti e misurazioni

    Buongiorno Caro lettore, bentornato nel nostro spazio settimanale di condivisione e approfondimento di temi legati alla sicurezza sul lavoro. Oggi ti voglio parlare di un argomento molto popolare, le radiazioni ottiche artificiali, devi sapere che sono molte le attività che devono eseguire questo tipo di valutazione, dal semplice studio dentistico ad aziende più strutturate dove le componenti di rischio sono maggiori come, per esempio, chi esegue attività di saldatura o tagli al laser, per intenderci la maggior parte delle aziende metalmeccaniche. Quindi leggi attentamente questo approfondimento perché la tua azienda potrebbe dover fare o aggiornare questo tipo di valutazione, ed è bene che tu sappia tutto il processo che sta dietro un numero. Ma andiamo per gradi... Cosa sono le radiazioni ottiche artificiali? Con l’acronimo ROA (radiazioni ottiche artificiali) si intendono tutte le radiazioni elettromagnetiche, generate artificialmente, aventi una lunghezza d’onda compresa tra 100 nm e 1 mm che possono essere suddivise in tre fasce: radiazioni ultraviolette (UV); radiazioni visibili; radiazioni infrarosse (IR). Tutte le radiazioni ottiche non provenienti dal Sole, quindi, vengono generate artificialmente da determinate sorgenti e rientrano nella definizione di ROA. Quali possono esser le sorgenti di radiazioni ottiche artificiali? Le sorgenti di ROA possono essere suddivise in giustificabili (cioè intrinsecamente sicure e innocue nelle condizioni di utilizzo abituali) o non giustificabili. Le ROA non giustificabili possono essere emesse da: attività di saldatura, lampade germicide per la disinfezione e sterilizzazione, lampade abbronzanti, corpi incandescenti come il metallo fuso, laser, display, monitor, ecc. Costituiscono sorgenti giustificabili: monitor dei computer, fotocopiatrici, display, lampade di illuminazione standard di ambienti domestici e di ufficio, ecc. Gli organi “bersaglio” di un’esposizione a ROA sono gli occhi e la pelle. La tipologia di effetti su tali organi dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione incidente; la gravità dell’effetto, invece, dipende dall’intensità della radiazione stessa. Come si misurano le radiazioni ottiche artificiali? Per i rilievi si utilizza un foto-radiometro portatile in grado eseguire misure di radiazioni ottiche non coerenti in accordo alla direttiva europea 2006.25. CE ed al decreto legislativo 81.2008. Lo strumento è composto da una serie di sensori per coprire le differenti porzioni spettrali e da un piccolo LASER che serve ad indicare la sorgente analizzata. Lo strumento è corredato da specifico software che permette l’analisi dei dati rilevati e di verificare il rispetto dei limiti imposti dalla normativa. Quali effetti hanno le radiazioni ottiche artificiali sull’uomo? Come prima citato gli organi più colpiti dalle radiazioni sono la pelle e gli occhi approfondiamo ora quali danni può provocare un’eccessiva esposizione. Sulla pelle, l’esposizione a ROA può provocare: eritemi bruciature invecchiamento accelerato tumori cutanei; mentre per quanto riguarda l’apparato visivo (occhi) possono verificarsi: cataratte bruciature di cornea e retina lesioni della retina fotocheratite fotocongiuntivite In considerazione delle conseguenze negative che il lavoratore può avere, è di fondamentale importanza (e richiesto peraltro dal DLgs 81/2008) che il Datore di Lavoro valuti adeguatamente il rischio connesso all’esposizione a ROA e, se necessario, metta in atto un piano di misure tecniche-organizzative volte ad eliminare o, laddove non fosse possibile, ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori. Quando è necessaria la valutazione dell’esposizione a ROA e quando è necessario effettuare le misure? Come stabilito dall’art. 216 del D.lgs. 81/2008, il Datore di Lavoro deve valutare sempre l’esposizione dei lavoratori alle ROA, in relazione alle attività svolte e alle sorgenti presenti nell’ambiente di lavoro. Pertanto, nell’ottica della valutazione dei rischi, è bene che il Datore di Lavoro parta con un censimento di tutte le sorgenti di radiazioni ottiche artificiali presenti nell’ambiente di lavoro. Nel caso in cui le sorgenti presenti siano tutte giustificabili non è necessario ricorrere alle misurazioni. Viceversa, se sono presenti sorgenti non giustificabili, quali le attività prima elencate (attività di 8saldatura, lampade abbronzanti, laser, corpi incandescenti, ecc.), e non si può escludere a priori il superamento dei valori limite di esposizione stabiliti dal D.lgs. 81/2008, è necessario ricorrere alle misurazioni. Generalmente, in questi casi, il rischio viene approfondito dettagliatamente seguendo i seguenti step: analisi del lavoro: finalizzata alla definizione di una corretta strategia di misurazione; scelta della strategia di misurazione; misurazioni: esecuzione dei rilievi radiometrici; calcolo dell’esposizione e confronto con i valori limite di esposizione. Ogni quanto tempo deve essere aggiornata la valutazione? L’art. 181, comma 2, stabilisce che la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad agenti fisici (tra cui le radiazioni ottiche artificiali) deve essere effettuata, con cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia. Inoltre, tale valutazione deve essere aggiornata ogni qual volta si verifichino mutamenti che potrebbero renderla obsoleta o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne mostrino la necessità. Come sempre spero di esserti stato d’aiuto a comprendere al meglio ciò che svolgiamo all’interno della tua attività. Per qualsiasi dubbio non esitare a contattarmi. Buona giornata e alla prossima!

  • Gestione delle emergenze e corsi antincendio: le novità

    Buongiorno, Caro lettore, oggi voglio palarti di un aggiornamento molto importante l’1,2 e 3 settembre 2021 sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i Decreti Ministeriali che andranno a sostituire a partire dal 4 ottobre 2022 (più o meno un anno dopo essere stati pubblicati in G.U.), il vecchio Decreto 10 marzo 1998 che riguarda la gestione e la formazione antincendio sui luoghi di lavoro. So che alcune cose da comprendere sono molto complesse, infatti, il mio tentativo è stato quello di snellire il tutto in maniera più semplice ed esplicativa possibile aggiungendo laddove serviva anche degli esempi pratici, l’articolo lo troverai sempre presente qui nel blog in modo da poterlo consultare ogni qualvolta ti sorga un dubbio. Vediamo di approfondire la situazione attraverso quelle che sono le domande che potrebbero sorgere ad un pubblico non costantemente aggiornato. Con i nuovi Decreti sono stati abrogati alcuni dei vecchi articoli? Ebbene sì, gli articoli che sono stati abrogati dal Decreto Ministeriale del 10 marzo 1998 sono: L’art. 3 comma 1 lettera f (fornire ai lavoratori una adeguata informazione e formazione sui rischi di incendio secondo i criteri di cui all’allegato VII) L’art. 5 (Gestione dell’emergenza in caso di incendio) L’art. 6 (Designazione degli addetti al servizio antincendio) L’art. 7 (Formazione degli addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione dell’emergenza). Quali sono gli argomenti principali dei nuovi decreti? Gli argomenti principali dei nuovi Decreti sono: DM 01 settembre 2021 “Criteri generali per il controllo e la manutenzione degli impianti, attrezzature ed altri sistemi di sicurezza antincendio, ai sensi dell’articolo 46, comma 3, lettera a), punto 3, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 25/09/2021; DM 02 settembre 2021 “Criteri per la gestione dei luoghi di lavoro in esercizio ed emergenza e caratteristiche dello specifico servizio di prevenzione e protezione antincendio, ai sensi dell’articolo 46, comma 3, lettera a), punto 4 e lettera b) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81” pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 04/10/2021. DM 03 settembre 2021 “Criteri generali di progettazione, realizzazione ed esercizio della sicurezza antincendio per luoghi di lavoro, ai sensi dell’articolo 46, comma 3, lettera a), punti 1 e 2, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. “, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29/10/2021. Ho già acquistato un corso antincendio ai sensi del DM 10 marzo 1998 previsto per novembre 2022, cosa devo fare considerando che il Decreto è cambiato? Non ti preoccupare se hai acquistato tale corso potrai comunque svolgerlo senza nessun tipo di problema; infatti, tutta la formazione svolta entro il 4 aprile 2023 sarà valida a tutti gli effetti per il rilascio dell’attestato di addetto antincendio. Ho svolto il corso di formazione o di aggiornamento addetto antincendio da meno di 5 anni quando devo fare l’aggiornamento? E se invece sono già passati più di 5 anni dalla formazione o ultimo aggiornamento? Se hai svolto il corso di formazione o di aggiornamento addetto antincendio da meno di 5 anni dovrai svolgere il corso di aggiornamento entro i 5 anni successivi ovvero entro la scadenza. Poniamo un esempio: ho volto il corso in data 1 agosto 2020, sino all’1 agosto del 2025 il mio attestato sarà valido a tutti gli effetti. Prendiamo in esame ora la seconda domanda, se sono già passati 5 anni dalla tua formazione o aggiornamento, il tuo attestato è ormai scaduto, hai un anno di tempo per aggiornarti e ricevere un nuovo attestato che avrà valenza quinquennale. Poniamo un esempio, ho svolto il corso in data 10 ottobre 2017, il mio corso in data 10 ottobre 2022 non avrà più validità e avrò tempo sino al 4 ottobre 2023 per aggiornarmi al nuovo Decreto Ministeriale. Come sono cambiate le denominazioni dei corsi addetto antincendio? Dal 1998 sino ad oggi siamo stati soliti denominare i corsi con il livello di rischio al quale l’azienda era sottoposta, basso, medio o alto. Dal 4 ottobre 2022 i corsi si definiranno come livello 1 (ex rischio basso), livello 2 (ex rischio medio) e livello 3 (ex rischio alto). Quali sono le aziende di livello 1? Che tipo di formazione deve eseguire l’addetto antincendio? Le aziende che vengono considerate di livello 1 sono quelle realtà nel quale vi è una presenza di sostanze a basso tasso di infiammabilità, con una probabilità di propagazione di incendio scarsa. Se l’azienda per il quale lavori fa parte di questo gruppo la formazione per diventare addetto antincendio sarà complessivamente di 4 ore declinate in 2 teoriche e 2 pratiche, mentre i successivi aggiornamenti saranno ogni 5 anni e sarà solo un modulo pratico da 2 ore. Quali sono le aziende di livello 2? Che tipo di formazione deve eseguire l’addetto antincendio? Le aziende che vengono considerate di livello 2 sono quelle realtà nel quale vi è una presenza di sostanze infiammabili, con una probabilità di propagazione di incendio limitata. Se l’azienda per il quale lavori fa parte di questo gruppo la formazione per diventare addetto antincendio sarà complessivamente di 8 ore declinate in 5 teoriche e 3 pratiche, mentre i successivi aggiornamenti saranno ogni 5 anni e saranno 2 ore teoriche e 3 ore di pratica per un totale di 5 ore. Quali sono le aziende di livello 3? Che tipo di formazione deve eseguire l’addetto antincendio? Le aziende che vengono considerate di livello 3 sono quelle realtà nel quale vi è una presenza di sostanze altamente infiammabili, con un’elevata probabilità di propagazione di incendio. Se l’azienda per il quale lavori fa parte di questo gruppo la formazione per diventare addetto antincendio sarà complessivamente di 16 ore declinate in 12 teoriche e 4 pratiche, mentre i successivi aggiornamenti saranno ogni 5 anni e saranno 5 ore teoriche e 3 ore di pratica per un totale di 8 ore. Come posso svolgere il corso addetto antincendio? Quali sono le metodologie didattiche? Innanzitutto, bisogna fare una prima distinzione ovvero la parte teorica dalla parte pratica in quanto le stesse non si possono svolgere nelle medesime modalità. Il modulo dedicato alla parte teorica lo si potrà svolgere: In presenza In videoconferenza (FAD sincrona) Non in e-learning Mentre per quanto riguarda il modulo OBBLIGATORIO dedicato alla parte pratica lo si potrà svolgere solo ed esclusivamente in presenza. Queste sono quelle che secondo me potrebbero essere le domande che ti potresti porre, ma probabilmente te ne sono sorte altre, l’argomento è vasto e delicato, non tenertele per te, condividile! Potresti essere di aiuto ad altre persone che come te hanno riscontrato dei dubbi circa la nuova normativa antincendio, scrivi pure a me o al mio team di tecnici e saremo lieti di risponderti. Ti ringrazio e ti saluto, alla prossima settimana con un nuovo articolo!

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